OVVERO QUANDO IL TEATRO NASCE DALL’AMBIENTE, DAL CONTESTO, DALLA SITUAZIONE.
Le finalità risocializzative, rieducative, terapeutiche, trasformative del teatro. La ricchezza del teatro, la sua potenzialità trasformativa in chi ne fa esperienza attiva, in chi lo pratica seppur a livello non-professionale, non è riducibile alle suggestioni sensoriali, alla stimolazione di emozioni o al piacere del movimento, del gesto, dell’azione scenica. Nel fare teatro ci sono degli effetti di verità per il soggetto che vanno al di là della soddisfazione percettiva ed emotiva. Hanno a che fare con la messa in gioco di un desiderio profondo, con domande fondamentali riguardo la propria vita e il modo di essere al mondo.
Michele Cavallo, Biblioteca Teatrale, Atti del convegno “Teatro e ambiente arricchito”, Università Sapienza di Roma, 8-10 giugno 2015.
- Dall’ambiente arricchito al teatro povero
Se nella ricerca sperimentale su animali la nozione di “ambiente arricchito” indica una ricchezza di stimoli capaci di generare effetti positivi sull’attivazione, sul comportamento motorio, sull’apprendimento, sulle risposte immunitarie, sulla plasticità neuronale, bisogna riconoscere che nell’ambiente umano l’interesse, l’attivazione, il coinvolgimento non sono provocati dalla quantità e varietà di stimoli percettivi, predefiniti e standard. Qui la nozione stessa di ambiente è molto più problematica, non può essere ricondotta a parametri spaziali e sensoriali. La realtà con cui si rapporta l’essere umano è una realtà significante, una foresta di simboli carica di risonanze, echi, significati che la storia personale si porta dietro. Già la percezione è condizionata da dimensioni che non si lasciano ridurre a un’indagine quantitativa. Parliamo degli affetti, del desiderio, dell’immaginario, dell’inconscio, del corpo, del pensiero. Ed è proprio a partire da queste dimensioni che la realtà, per ognuno, prende forma. Già Sartre avvertiva che bisogna rinunciare «a supporre un’azione meccanica dell’ambiente sul soggetto. L’ambiente non può agire sul soggetto che nella misura in cui si trasforma in situazione»[1]. L’ambiente concepito come situazione rinvia al soggetto che ricorda, che sceglie, che immagina. Ecco allora che ci capita di incontrare qualcuno che può sentirsi prigioniero nella vasta Danimarca, pur essendone il principe, mentre confinato in un guscio di noce si riterrebbe signore d’uno spazio infinito. Il teatro concepito in accordo ai soggetti e ai luoghi è un teatro situazionale; attento alle specifiche situazioni in cui interviene, non impone stimoli standard e non cerca reazioni meccaniche. La situazione teatrale mostra la sua ricchezza proprio nella sua capacità di adattare di volta in volta il suo linguaggio a esperienze diverse, nuove. Ma cosa vuol dire arricchire l’esperienza umana nella situazione teatrale?
- Un altro tipo di ricchezza
Già i maestri del ’900 avevano formulato l’idea di un teatro come realtà intensificata. Questa tensione in alcuni casi aveva portato a un vero e proprio progetto di rifondazione antropologica dell’atto performativo e con esso dell’esperienza soggettiva. Negli atelier, negli studi, nei laboratori si è perseguita, nel lavoro dell’attore su se stesso, la riconfigurazione dell’esperienza nei seguenti termini:
- “rinnovare il sentire”, attraverso una continua reinvenzione linguistica e tecnica;
- “moltiplicare le superfici di sensibilità” e aprire le porte della percezione per poter cogliere piani molteplici della realtà;
- “liberare il corpo e la mente dalle abitudini”, attraverso un apprendimento teso al decondizionamento e al superamento dei limiti psico-fisici;
- “produrre stati più autentici e intensi”, in cui la vita è presente in modo più forte;
- “fare del teatro il luogo della verità”, dove qualcosa di essenziale si svela;
- “poter incontrare la contingenza, l’inedito”, in grado di risvegliare desideri nuovi, risorse extra-ordinarie dell’esperienza;
- “affrancarsi dai sembianti per poter toccare il reale” (in senso lacaniano).
Tale “arricchimento” è stato ricercato nel corpo dell’attore attraverso le prassi pedagogiche, ma anche nel dispositivo teatrale, nell’uso dello spazio, nell’uso di diversi linguaggi scenici, nella stilizzazione sempre più evocativa e meno illustrativa. Paradossalmente, la ricchezza e l’intensificazione dell’esperienza sono state perseguite attraverso una sottrazione, un “teatro povero”, un teatro spogliato degli orpelli, abitato dalla presenza organica del performer, dal valore simbolico degli oggetti, dalla parola visitata dal silenzio, dallo spazio vuoto, da sonorità concrete. Il teatro ci ha aiutato, così, a identificare modi e luoghi di un’altra ricchezza, propriamente umana.
- Oltre la percezione, l’emozione, il corpo
L’intensità, la verità, l’inedito, il reale dell’esperienza sono tutt’altra cosa che risposte a stimoli sensoriali o linguistici. La percezione di per sé non basta, non ci conduce alla verità o a una rinnovata intensità. Le reazioni spontanee del corpo non testimoniano la sua naturalità o autenticità. Neppure l’emozione dice necessariamente il vero. Inseguire l’integrazione corpo-mente può rivelarsi un equivoco, appena svoltato l’angolo scopriamo che il corpo mente, lo fa molto bene! La fenomenologia della percezione deve inoltrarsi nelle pieghe che si formano tra visibile e invisibile, tra pensiero e inconscio, se vuole scoprire nuove materie di cui è fatta l’esperienza e la vita stessa[2]. Proprio seguendo il tragitto che Maurice Merleau-Ponty traccia dalla sua opera più famosa fino agli ultimi scritti, siamo condotti a un “al di là” della fenomenologia della percezione, in un’area in cui lo sguardo, la voce, il movimento non sono mere funzioni percettive o espressive[3]. In questi scritti, il filosofo francese ha cercato di dar voce agli enigmi dell’esperienza soggettiva, ai suoi paradossi. Per vedere il mondo e coglierlo nella sua enigmaticità, occorre rompere la nostra familiarità con esso e non ridurlo ai dati superficiali o primari dell’esperienza. Presupporre che ci sia da qualche parte un luogo dell’unità, un esserci, una pura presenza del corpo, una nuda esistenza in rapporto diretto con le cose del mondo e con noi stessi, è stato un miraggio estremamente seduttivo al quale neanche i grandi maestri-pedagoghi del teatro novecentesco hanno saputo resistere. Il recupero della primarietà della percezione, del vissuto corporeo, di una trasparenza e autenticità primigenia è stato il progetto di molte pedagogie teatrali. Certo, la nozione di corpo vissuto (Leib), distinta dalla nozione di corpo oggetto (Körper), rimane fondamentale. Ma il corpo vissuto è distante dalla natura, si costituisce continuamente, non è dato una volta per tutte, è esso stesso il precipitato delle esperienze individuali e culturali. Il corpo è sempre inculturato, opaco, mosso da pulsioni inconsce, continuamente riplasmato dal linguaggio, dalla relazione con l’altro, dalle esperienze passate. Non è un dato primario: è storia incarnata e interiorizzata come una seconda natura, presenza attiva dell’intero passato. Ad esempio, è impossibile per l’occhio coincidere con la sua funzione di puro vedere: nello sguardo c’è già il guardare e l’essere visto, il chiedere, il minacciare, il piangere, il chiudersi, il fingere, il ricordare. Allo stesso modo, l’emozione non è garanzia della connessione autentica con la realtà interna o esterna. Gli affetti, per quanto fortemente sentiti, non hanno un accesso privilegiato alla verità, non sono una espressione primaria e naturale. Nonostante si creda che l’affetto sia con il corpo in un rapporto immediato, testimoniato dalla palpitazione, dalla sudorazione, dalla trepidazione, è facile constatare come questa espressività sia un campo del tutto equivoco, in cui spesso una emozione sta per un’altra, un moto d’amore sostituisce un odio inconscio. Le stesse reazioni fisiologiche del corpo sono frutto di una storia e un apprendimento del tutto singolari. Anche l’affetto più autentico, più vivace, più apparentemente immediato, ha comunque qualcosa di teatrale. Cosa può essere un moto di tristezza senza il suo motivo, senza la storia che vi si cela dietro, senza l’abitudine alle lacrime, senza l’immagine di uno sguardo al cui cospetto ci abbattiamo e giochiamo il ruolo dell’uomo triste?
- Accendere il desiderio
Per Merleau-Ponty la percezione, le sensazioni e le reazioni emotive non sono un modo di conoscenza della realtà, ma una modalità del desiderio, un “rapporto d’essere”. Se non è acceso il desiderio, qualsiasi stimolo cade nel vuoto. Spesso abbiamo a che fare con persone che appaiono sorde ad ogni sollecitazione, indifferenti al coinvolgimento emotivo, per quanto ricca sia la stimolazione. Altre volte incontriamo qualcuno che si lascia coinvolgere e aiutare a riemergere dalla più profonda angoscia grazie a un piccolo gesto o una parola. È nell’esplorazione delle diverse modalità d’accensione del desiderio che l’arte e la clinica ci fanno scoprire qualcosa di essenziale. Ci insegnano che nell’esperienza non è primario il percepire e l’agire, ma il desiderio che li sostiene: solo a partire dal proprio desiderio il soggetto è implicato in ciò che pensa, che sente, che fa. È quanto rivela Antonin Artaud: «Questa mattina io ho per la prima volta compreso la differenza tra una sensazione e un sentimento: nella sensazione si prende ciò che viene, nel sentimento si interviene»[4]. Cosa vuol dire “intervenire”? Vuol dire implicarsi. La sensazione è tradotta in stato d’animo che a sua volta diventa sentimento a patto che il soggetto, con la sua storia, le sue peculiarità, il suo desiderio intervenga, si implichi. In realtà, ogni sensazione che ci colpisce, che sia esterna o interna, racchiude in sé diversi livelli di esperienza e diversi piani temporali. Se una sensazione assume senso e peso è perché fa confluire in sé i tre tempi: passato-presente-futuro. Sigmund Freud ha mostrato chiaramente questo aspetto della sincronicità della sensazione:
Il lavoro mentale prende le mosse da un’impressione attuale, un’occasione offerta dal presente e suscettibile di risvegliare uno dei grandi desideri del soggetto. Di là si collega al ricordo di un’esperienza anteriore, risalente in genere all’infanzia, in cui quel desiderio veniva esaudito; e crea quindi una situazione relativa al futuro la quale si configura come appagamento di quel desiderio. (…) Dunque passato, presente e futuro, come infilati al filo del desiderio che li attraversa.[5]
L’esperienza immediata reca in sé le tracce della sua provenienza, le risonanze dal passato sono già la prefigurazione di un futuro appagamento di desiderio. Nel lavoro teatrale tale sincronicità va riconosciuta nella singolarità di ognuno. Non c’è un sapere universale che ci possa dire cosa sia una sensazione e cosa implichi per quel dato soggetto. Non c’è un sapere generale di cui ci possiamo accontentare, né psicologico, né teatrale, né antropologico. Il sapere del teatro si coniuga al singolare: ascolto, attenzione e risposte alla diversità di ogni soggetto. I laboratori teatrali possono diventare luoghi dove si costruisce un sapere e un saper-fare ad hoc. Dove non ci sono dati originari, prelinguistici, presoggettivi, uguali per tutti. Il teatro può essere una prassi per “rifare il corpo” a patto che non lo riduca a sensazioni, funzioni e prestazioni. Può essere uno spazio in cui la sospensione dei normali comportamenti quotidiani rende possibile la scoperta di un altro corpo, che dischiude un altro uso, un altro vissuto, un’altra immagine. Anche qui Artaud ha aperto la strada: il corpo è stato modellato dalla società. Persino la fisiologia, l’anatomia e le stesse funzioni degli organi sono state organizzate dal linguaggio, dall’immaginario, dagli usi trasmessi dalla società. L’unica possibilità che resta al soggetto è di reinventare il suo corpo. Reinventare il vissuto, l’esperienza corporea, “intervenire” sulle sensazioni, sull’immagine corporea, sulle reazioni emozionali, sulle pulsioni che lo animano. Non si tratta, però, di pensare la società, il linguaggio e i suoi condizionamenti da una parte e l’individuo naturale, libero, autentico dall’altra. L’individuo è già da subito inculturato, abitato dal linguaggio. L’interiorizzazione delle rappresentazioni, delle norme, dei valori, dei divieti, dei gusti, del sentire consensuale, avviene da subito in modo automatico, non consapevole, non critico. Per Michel Foucault l’ideologia pervasiva di un’epoca si insinua nei corpi degli individui attraverso molteplici pratiche disciplinari (microfisica del potere). Tale ideologia è capace di «penetrare materialmente nella consistenza dei corpi senza dipendere neppure dalla mediazione delle rappresentazioni proprie al soggetto. Se il potere raggiunge il corpo ciò non comporta che esso sia stato dapprima interiorizzato nella coscienza della gente»[6]. Grazie a questa interiorizzazione inconsapevole, i corpi sono disciplinati e sorvegliati dal potere. Corpi docili, plasmati da un certo sapere, dalle istituzioni: il manicomio, l’ospedale, la prigione, la fabbrica, la scuola sono esempi evidenti. Ma la stessa docilità e permeabilità del corpo può essere assunta per tentare la sua reinvenzione.
- Il fare artistico come reinvenzione di sé
La docilità del corpo permette di agire su di sé e riplasmare la propria soggettività. I diversi linguaggi dell’arte possono diventare “arti dell’esistenza”, pratiche che permettono la trasformazione di sé a partire dalla rottura di automatismi, dalla creazione di nuove concatenazioni emotive, percettive, pulsionali, semantiche., La reinvenzione e la cura di sé passano necessariamente da un fare all’interno di un dato linguaggio, caratterizzato da una sintassi, una grammatica, una pragmatica e una semantica propri. Quando il modo di pensare, di vedere e di sentire la realtà e sé stessi viene consapevolmente interrogato e problematizzato servendosi di un determinato linguaggio, allora ci troviamo in un campo in cui l’arte diviene “tecnologia del sé”[7]. Artaud è stato e continua ad essere un riferimento essenziale nel concepire il teatro come strumento per “rifare la vita”, crogiuolo della creazione non di un’opera, ma dell’uomo stesso. Jerzy Grotowski, con la nozione di “arte come veicolo”, ha rilanciato questa concezione del teatro[8]. Non ci stupisce allora che l’esperienza artistica sia spesso stata inglobata in pratiche religiose, educative, mediche, psicologiche. Al centro delle diverse pratiche artistiche troviamo l’idea di performance, ovvero il fare, l’agire, il trasformare. Idea essenziale per comprendere la costituzione stessa dell’esperienza individuale. È nella performance, infatti, che noi ri-sperimentiamo, ri-viviamo, ri-costruiamo e ri-modelliamo la nostra esperienza[9]. Se il linguaggio è la casa dell’uomo, il lavoro con i linguaggi è il modo per riplasmare la complessità della natura umana. Giocare con i linguaggi è giocare con le dimensioni dell’esperienza: ripetere, sostituire, montare, combinare, inventare, trasformare segni, forme, suoni, movimenti. E il fare artistico emula la fabbricazione degli umani. La metamorfosi delle forme e dei linguaggi artistici è un analogo della continua trasformazione della vita, dell’identità, delle relazioni, del senso che diamo alle cose. Questa analogia tra la struttura dell’esperienza e il fare artistico poggia soprattutto sulla processualità che viene messa in atto. L’attenzione e la dedizione al processo fa sì che l’artista trovi il senso nel fare stesso, nel suo saper-fare, nella ricerca di nuove soluzioni, di nuove forme. In questo stesso fare, l’artista può trovare la bellezza, percepire l’estetica del processo, prima ancora dell’estetica del prodotto. In alcune esperienze teatrali del ’900 si è assistito a un vero e proprio cambio di paradigma: dall’estetica dello spettacolo all’estetica del processo. La vita si è convertita nell’opera che testimonia certi valori estetici e rimanda a un certo stile etico. La dedizione al processo nel quotidiano lavoro artigianale salva dal narcisismo e mette l’artista di fronte alla propria alterità, non a se stesso riflesso negli occhi ammirati degli altri. La riduzione dell’arte al prodotto espone l’artista al pericolo di una nuova alienazione. L’artista che si fissa immobile, innamorato della propria immagine, gioca col suo narcisismo. Gioco mortale in cui non ricrea sé stesso, ma si ripete. L’arte ha una funzione di svelamento quando sembra dirci con un misto di gioia e terrore: “sì questo sei tu”, ma anche: “devi cambiare la tua vita”[10].
- Teatro in situazione
Molte di queste acquisizioni sono confluite, negli ultimi anni, in esperienze di teatro fuori dai teatri. Il teatro si è portato nei diversi contesti sociali, per riqualificare, riabilitare, ridefinire gli ambienti in cui le persone vivono o in cui sono istituzionalizzate per diversi motivi. Qui il teatro si ritrova in non-luoghi, con non-attori, per un non-teatro. Con pochi strumenti produttivi è costretto a reinventare la sua stessa funzione. Smette di essere un gioco di evasione per diventare un «atto utile, e assumere il valore di una vera e propria terapeutica»[11]. Ovvero, di un luogo in cui non si imita la vita ma si rifà; un luogo in cui si cerca di dare senso a un disagio esistenziale per “rinascere altro”. Dare senso nelle tre accezioni: restituire un sentire autentico, dare un significato all’esistenza, indicare la direzione del cammino. Il teatro inteso come prassi “situazionale” può ritrovare la sua funzione nel dare senso e contribuire a trasformare il soggetto, la comunità, i luoghi. Non solo Artaud, anche altri maestri hanno parlato di un teatro necessario, trasformativo. Nelle parole di Jerzi Grotowski: «Sono convinto che nel complesso […] lo spettacolo rappresenti una forma di psicoterapia sociale, mentre per l’attore può costituire una terapia solo se egli si è dato al suo compito con un impegno totale»[12]. Un teatro che renda possibile un reale incontro con un altro essere umano e consenta nell’attore il superamento della propria solitudine. Nelle parole di Peter Brook:
Una vera immagine dell’andare a teatro per vera necessità è, secondo me, la terapia fondata sullo psicodramma in un manicomio. C’è una piccola comunità, che conduce una vita regolare, c’è un evento, qualche cosa di insolito, qualcosa da attendere con impazienza: una seduta di dramma. […] Può darsi che ridano. Può darsi che piangano. Può darsi che non reagiscano affatto. Ma dietro tutto ciò che si rappresenta tra i cosiddetti malati di mente, c’è una realtà semplicissima, sanissima. Tutti loro hanno in comune il desiderio di essere aiutati a riemergere dalla loro angoscia, anche se non sanno in che cosa possa consistere tale aiuto o quale forma esso debba assumere. […] Può darsi che non porti ad alcun risultato medico durevole. Ma nella situazione immediata, c’è un risultato incontestabile. Due ore dopo l’inizio di qualunque seduta, tutti i rapporti tra le persone presenti sono leggermente modificati a causa dell’esperienza in cui si sono tuffate insieme. Di conseguenza c’è qualcosa di più animato, qualche cosa che scorre più liberamente, qualche embrionale contatto che si stabilisce tra anime che in precedenza erano sorde ad ogni sollecitazione esterna. Quando lasciano la sala, i malati non sono più gli stessi di quando sono entrati. Se quanto è avvenuto è stato sconvolgentemente doloroso, ne traggono altrettanto vigore che se si fossero divertiti allegramente. Non ha senso né il pessimismo né l’ottimismo: semplicemente alcuni partecipanti sono, almeno temporaneamente, un po’ più vivi. Se quando varcano la soglia per uscire tutto non svapora, non ha importanza. Avendone provato il gusto, desidereranno tornare ad assaggiare quell’esperienza. La seduta di dramma apparirà come un’oasi nella loro vita. Questo è quanto io intendo per teatro necessario[13].
Il riferimento allo psicodramma di Jacob Levi Moreno, che utilizza il setting teatrale come forma di terapia di gruppo, ha avuto nel frattempo molti sviluppi. Con la drammaterapia e il teatro sociale il campo di applicazione del teatro si è esteso notevolmente[14]. La dizione “teatro sociale” rispetto a quelle più restrittive di “drammaterapia” o “teatroterapia”, privilegia la radice teatrale e l’estensione delle sue applicazioni. Inoltre, pur intervenendo in situazioni di disagio socio-sanitario, evita l’equivoco di qualificarsi come pratica terapeutica (essendo, in Italia, tali professioni regolate da specifici profili formativi e normativi). Teatro sociale è una locuzione usata comunemente in italiano per indicare gli interventi di mediazione teatrale nei diversi contesti sociali. Nei paesi anglofoni corrisponde a differenti denominazioni: applied theatre, community theatre, theatre for development, popular theatre[15]. Il teatro viene qui utilizzato da operatori con formazione artistico-teatrale e con competenze psico-pedagogiche, per poter intervenire nei più diversi contesti e con finalità diverse.[16] Il teatro tra cura, riabilitazione e promozione della qualità della vita, si rivolge a tutti, a patto che non si limiti ad essere solo teatro-spettacolo, ma che concentri nel processo la sua stessa cifra artistica. Processo, lo abbiamo visto, vuol dire attenzione data a quel che accade nel laboratorio, ascolto della diversità di ogni partecipante, modulazione delle dinamiche relazionali e affettive, stimolo alla creatività e al desiderio di ognuno. In tal modo il lavoro è volto a promuovere il potenziale “trasformativo” che l’esperienza teatrale è in grado di attivare. Il teatro sociale fa tesoro delle acquisizioni della tradizione teatrale per inoltrarsi nei paradossi dell’esperienza umana e nelle sue straordinarie risorse; non dimentica che il teatro, più di altre prassi sociali, ha permesso di osservare i modi di attrarre e orientare processi di cambiamento negli individui, nelle comunità e nelle istituzioni[17].
Al di là delle specifiche denominazioni, il campo del teatro applicato nei diversi contesti sociali, rappresenta al momento una delle tendenze più interessanti nel panorama delle buone prassi, oltre ad essere un promettente campo di ricerca e di formazione.
NOTE
[1] J.-P. Sartre, L’Être et le néant: Essai d’ontologie phénoménologique (1943), trad. it. L’essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica, il Saggiatore, Milano 1997, p. 636.
[2] Cfr. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception (1945), Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003.
[3] Cfr. Id., Le visible et l’invisible (1964), Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1993.
[4] A. Artaud, Ce matin, in «84», n. 5-6, 1948, p. 133. [«Ce matin / moi qui ai tout inventé / j’ai pour la première fois compris / la différence / entre une sensation / et un sentiment / dans la sensation on prend ce qui vient / dans le sentiment on intervient»] TdA.
[5] S. Freud, Il poeta e la fantasia, in Opere, Bollati Boringhieri, vol 5, Torino, pp. 378-379.
[6] M. Foucault, Le rapports de pouvoir passent à l’intérieur des corps, in Id., Dits et Écrits: 1954-1988, Gallimard, Paris 1994, 4 voll., vol. III: 1976-1979, p. 231. “…passer matériellement dans l’épaisseur même des corps sans avoir à être relayés par la représentation des sujets. Si le pouvoir atteint le corps, ce n’est pas parce qu’il a d’abord été intériorisé dans la conscience des gens”. TdA
[7] Cfr. Technologies of the Self. A Seminar with Michel Foucault (1988), trad. it. Tecnologie del sé. Un seminario con Michel Foucault, a cura di a cura di L. H. Martin, H. Gutman, P. H. Hutton, Bollati Boringhieri, Torino 1992.
[8] Cfr. J. Grotowski, Dalla compagnia teatrale a L’arte come veicolo, in T. Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, Ubulibri, Milano 1993, pp. 121-141, ora in Il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski 1959-1969, a cura di L. Flaszena, C. Pollastrelli, R. Molinari, 2 ed., La casa Usher, Firenze 2006 (Fondazione Pontedera Teatro, Pontedera 2001), pp. 206-222.
[9] Cfr. The Anthropology of Experience, a cura di V. W. Turner, E. M. Bruner, University of Illinois Press, Urbana-Chicago 1992 (1986).
[10] Cfr. H. G. Gadamer, Aktualność piękna (1977), trad. it. L’attualità del bello. Studi di estetica ermeneutica, Marietti, Genova 1986.
[11] A. Artaud, Le Théâtre et son double (1938), trad. it. Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968, p. 119.
[12] J. Grotowski, Per un teatro povero, Bulzoni, Roma 1968, p. 55.
[13] P. Brook, Il teatro e il suo spazio, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 159-160.
[14] Cfr. R. J. Landy, Drammaterapia. Concetti, teorie, pratica, Edizioni Universitarie Romane, Roma, 1999.
[15] Cfr. J. Thompson, R. Schechner, Why “Social Theatre”?, in «The Drama Review», vol. 48, n. 3 (T 183), Fall 2004, pp. 11-16.
[16] I saperi teatrali e psicopedagogici vengono applicati in maniera diversa a seconda del contesto in cui si opera. Ad esempio nel contesto psichiatrico si tiene conto delle specificità dei disturbi per poter creare le condizioni per un lavoro creativo, stimolante ma non ansiogeno per il paziente.
[17] Una delle metodologie caratterizzanti il teatro sociale è la creazione collettiva all’interno del laboratorio. Rispettando le possibilità e lo stile di ognuno, si costruiscono dispositivi creativi ed espressivi condivisi. All’interno di uno spazio protetto, il conduttore-trainer usa gli stimoli e i diversi linguaggi del teatro per arrivare a una scrittura scenica collettiva, non calata dall’alto da un autore-regista deus ex machina. Cfr. L. Mango, La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento, Bulzoni, Roma 2003.