Vivere nella tempesta di Nadia Fusini, Einaudi, Torino, 2016. Alcune linee di lettura psicoanalitica.
Recensione di Michele Cavallo per La Psicoanalisi, n. 60, 2017.
La vita è una tempesta. La Tempesta può diventare una vita.
È quanto Nadia Fusini testimonia con questo libro. Un lavoro ricchissimo di spunti teorici, di associazioni personali, autobiografiche e di riferimenti alla psicoanalisi. A partire dai molteplici mondi possibili che il testo shakespeariano dischiude, l’autrice costruisce un ipertesto che invita a percorrere nelle diramazioni e nelle immersioni che la Tempesta offre, promette, permette.
Non è quindi un libro a tesi che commenta e spiega, è una rilettura appassionata, coinvolta, caleidoscopica. È la testimonianza del proprio coinvolgimento, negli anni, in quest’opera straordinaria, l’ultima del bardo.
Vorrei qui riprendere solo alcuni fili della fitta trama intessuta dalla Fusini. Fili interessanti da sviluppare per uno psicoanalista. Innanzitutto il rapporto con un testo, con un immaginario così evocativo. Le condizioni che permettono alla parola (quella scritta o orale, quella poetica o analitica) di essere coinvolgente e trasformativa.
L’autrice da subito orienta il discorso su questa strada, segnalando come ogni opera d’arte chiede di essere attentamente guardata o ascoltata. Il saper vedere e il saper ascoltare è fondamentale. Non basta essere lì, è necessario un saper esserci e un voler implicarsi in ciò che mi si offre. È quanto accade a lei stessa davanti al testo di Shakespeare ed è quanto chiede al lettore davanti a questo suo singolare testo. Singolare perché ci induce subito ad abbandonare la lettura di genere, non essendo propriamente un saggio critico, né un romanzo, né un racconto, né un rimaneggiamento o una narrazione della Tempesta. Si tratta di trasformare la lettura in un viaggio interiore. Ma per partire è necessaria una partecipazione attiva, una mobilitazione del lettore: «l’artista non ha potere su chi non corrisponda all’esperimento con immaginazione “simpatica”» (180). Questa mobilitazione è una sorta di transfert. Mi piace insistere su questo punto, notando che in generale, nell’esperienza estetica, non è la percezione in sé a essere trasformativa, ma il desiderio che la sostiene: è il desiderio a implicare il soggetto in ciò che egli stesso pensa, sente o fa. È estremamente importante tener conto di questa articolazione nella clinica. Partendo dal desiderio del lettore evocato dalla Fusini, possiamo sottolinearne la portata. Mi viene in mente una frase di Antonin Artaud in cui quell’articolazione viene esplicitata: «Questa mattina io ho per la prima volta compreso la differenza tra una sensazione e un sentimento: nella sensazione si prende ciò che viene, nel sentimento si interviene». Cosa vuol dire “intervenire”? Vuol dire implicarsi, appunto. La sensazione va tradotta in stato d’animo che a sua volta può diventare sentimento, a patto che il soggetto – con la sua storia, le sue peculiarità, il suo desiderio – intervenga, si implichi. Nella stessa direzione va Freud quando in Il poeta e la fantasia sembra riassumere l’arte del fruitore-lettore: «il lavoro mentale prende le mosse da un’impressione attuale, un’occasione offerta dal presente e suscettibile di risvegliare uno dei grandi desideri del soggetto. Di là si collega al ricordo di un’esperienza anteriore risalente in genere all’infanzia, in cui quel desiderio veniva esaudito; e crea quindi una situazione relativa al futuro la quale si configura come appagamento di quel desiderio. (…) Dunque passato, presente e futuro, come infilati al filo del desiderio che li attraversa».
Tornando al testo della Fusini, ci sono moltissime scintille che accendono desideri e coinvolgono il lettore. I temi, i luoghi, i personaggi, i rimandi sono talmente tanti e interessanti che non si corre il rischio di rimaner sopiti. C’è innanzitutto il tema della tempesta, del naufragio, dell’isola; c’è il rapporto padre-figli (in primis quello tra Prospero e Miranda); c’è il rapporto con l’altro, lo straniero, il selvaggio; c’è il gioco, la meraviglia, la magia, l’illusione; c’è il tradimento, l’abbandono, la solitudine, il dover ricominciare; c’è la vendetta, la conoscenza, il perdono, la compassione. Ci sono personaggi che sono divenuti patrimonio dell’immaginario collettivo: il padre-mago Prospero, la figlia-meraviglia Miranda, lo spirito-aereo Ariel, il selvaggio-tellurico Caliban. Le linee di lettura sono virtualmente infinite, poiché il testo di Shakespeare è inafferabile, già nella sua definizione: commedia, dramma, favola, masque, allegoria morale, racconto misterico-iniziatico?
Il testo della Fusini rilancia la polisemia del testo del bardo e ne riverbera la «ricchezza spirituale che sboccerà e maturerà in mondi e in tempi di là da venire, in altri scrittori, in altri poeti, in altri lettori che sapranno riprenderne a masticare e rimasticare tra sé e sé parole e figure» (77). Seguendo questa linea, mi piace pensare la Tempesta come un’opera euristica, gravida di altri testi, altri immaginari, opera originaria che tenta la fondazione di un’esperienza umana inedita, l’invenzione di una posizione soggettiva nuova. Intendo, in senso lacaniano, una sovversione nel modo di essere soggetto delle proprie azioni, del proprio sentire. Incoraggiato da questa lettura, azzerderei a dire che poche opere possono vantare tale ambizione. In Shakespeare ne abbiamo qualce esempio, oltre al personaggio di Prospero direi Amleto. Altri rari esempi possiamo trovarne pensando a diversi momenti storici: qualche secolo prima di Shakespeare un nuovo modo di pensarsi ed essere soggetto (d’amore) era sorto dalla penna dei poeti dell’amor cortese, due secoli dopo sarà Faust a dare il calco ai tormenti del nuovo soggetto della conoscenza e nel ‘900 sarà l’invenzione kafkiana (e poi beckettiana) di un soggetto estraneo a se stesso, neutro.
Mi sembra che la Fusini sposi questa idea quando dice: «Con Prospero Shakespeare pensa una nuova scena [un nuovo soggetto], dove in questione non è tanto il regno, il ducato, e dunque il riassetto del potere. Non interessa qui il dramma politico, ma piuttosto la commedia dell’anima; e il grande tema che prende il largo è quello non della morte, ma della seconda nascita. C’è una svolta nel modo stesso di pensare all’azione, a quale sia l’azione che davvero conta» (132). Prospero, mago rinascimentale, rinuncia alla magia e al potere, segnando una svolta, rispetto agli altri personaggi shakespeariani, nel modo stesso di pensare l’azione. Una posizione inedita nella soggettività occidentale (forse aveva fatto capolino nella Roma decadente con i filosofi-letterati stoici), annunciata nella posizione di Socrate e teorizzata in Oriente dal Buddhismo.
In effetti, Prospero appare come un soggetto che si pone questioni essenziali in modo inedito. Come trasformare la paura della perdita, della caduta, della morte? Come affrancarsi dalla continua tentazione della potenza, del primeggiare, della seduzione, della sopraffazione? Come aprirsi all’esperienza della compassione, della meraviglia, della grazia? Prospero non ha l’ambizione di regnare, «quello che gli interessa davvero è di riportare al giusto, e cioè “giustificare” gli atti delle anime non rette. Vuole correggere, raddrizzare, riordinare – redress» (133). Vuole che i suoi nemici colgano l’occasione per cambiare, per farlo li mette in pericolo, li spaventa, li incanta, affinché il loro sguardo si incurvi sulla loro interiorità. L’esperienza del dolore, della sventura, della perdita deve essere la chiave per cambiare e diventare puri.
Freud con la posizione dell’analista inventerà qualcosa di ancora più radicale. Socrate e Prospero sembrano anticipare questa posizione: allora la psicoanalisi sarebbe potuta nascere nella Grecia classica o sotto la penna di Shakespeare! Non è stato così. Forse dopo Prospero, Shakespeare si sarebbe spinto ancora oltre… creando un “ultimo” personaggio simile all’analista? Un Prospero che non vuole nemmeno correggere, un non-mago che non ha potere né desiderio di raddrizzare, ma solo di ascoltare e orientare il soggetto al proprio desiderio inconscio. Un nuovo Prospero che non cerca di istillare “stili di vita corretti”, né tantomeno la felicità, la giustizia, il benessere, la salute o la salvezza. Non possiamo dirlo poiché l’ultimo è il Prospero della Tempesta: un buon padre, un uomo saggio, un educatore, uno psicoterapeuta, ma non ancora un analista. La Fusini sottolinea la funzione terapeutica di tutta la messa in scena: «l’isola è a suo modo un luogo di cura, una Spa, con uno strano dottore e un umbratile infermiere, I quali offrono ai pazienti a mo’ di terapia differenti prestazioni, anche artistiche (…). Alla fine, comunque, come in una efficiente casa di cura, ogni sintomo verrà trattato e a tutto si troverà una ragione. Tutto sull’isola acquisterà un significato “riparativo”» (138).
L’isola è un rito di passaggio, è la metamorfosi da uno stato all’altro, è il processo della sublimazione che permette di mutare lo stato di disperazione in attesa e questa in remissione dei sogni di onnipotenza, remissione che consente l’affiorare della compassione e della grazia. L’isola è il laboratorio di un’esperienza di profonda trasformazione, per tutti, Prospero incluso; il quale alla fine rinuncia ai suoi poteri magici, volge le spalle a ogni sogno di potere, aspirando a nient’altro che a uno “spazio libero”. «In termini di una psicoterapia moderna, l’ultimo atto della Tempesta potremmo intenderlo come la descrizione di una guarigione. Si tratta, in fondo, del passaggio dall’onnipotenza alla realizzazione della modesta pochezza di noi soggetti umani, troppo umani» (152). Alla fine ci risulta evidente che davanti ai nostri occhi si è dipanata una storia di meraviglie, di mutazioni, di conversione. La meraviglia, passione drammatica per eccellenza, è l’agente della trasformazione. Per l’autrice, il teatro, capace di suscitare stupore, meraviglia, incanto, è una chiave per aprire l’anima, vincere le chiusure e disporre a un diverso sentire. Nel ritrovarci spettatori, immobili, fermi possiamo acconsentire alle nostre paure, ai desideri, alle gelosie, all’odio… sentirli, accoglierli con compassione e dolcezza senza agirli nell’agone della vita. Per darci, anche noi, come i protagonisti della Tempesta, una seconda chance.
Ma il teatro, la poesia hanno davvero oggi il potere della meraviglia che dischiude? La Fusini nota come all’epoca di Shakespeare gli inglesi passavano il tempo a teatro, lì imparavano quel che accadeva nel mondo e nella loro anima. Nulla di paragonabile alla funzione che oggi ha il teatro e l’arte in genere, essendo stata assorbita tale funzione formativa da altri mezzi di comunicazione. Oggi più che mai c’è bisogno di una “fatica” per implicarsi nella fruizione di un’opera letteraria.
Ma, così come quella reale, questa tempesta di parole è una prova, chi l’attraversa ne esce un po’ trasformato, impara che si può far naufragio e salvarsi, che è possibile mollare gli ormeggi, lasciarsi trasportare, rinunciare a capire tutto e tutto voler dominare per correggere e rimettere in squadra il mondo.
MC
Nei 400 anni dalla scomparsa di William Shakespeare, la scrittrice, critica letteraria e traduttrice Nadia Fusini – una delle maggiori esperte dell’opera di Shakespeare, da poco in libreria col volume “Vivere nella tempesta” (Einaudi) – racconta la sua lettura de “La tempesta”, l’ultima opera scritta dal Bardo all’età di 47 anni, poco prima di abbandonare Londra e ritirarsi nella sua città natale. “Quest’opera ha una grande valenza simbolica, molto legata all’attualità di Shakespeare – ci spiega la Fusini – cioè da un naufragio realmente accaduto all’epoca. Quest’episodio assunse subito agli occhi del grande drammaturgo inglese un senso allegorico, perché accanto al naufragio c’è anche la salvezza. La provvidenza aiutò questi avventurosi in viaggio per le Americhe.”
Bellissima la metafora dl poeta e del drammaturgo, come superamento neutrale, e “soave”, della dialettica tragica, laddove arricchendo la lingua si giunge ad una doppia comprensione, quella dell’altro e quella dell’altro dell’altro.