Sigmund Freud. Nel suo tempo e nel nostro, di Élisabeth Roudinesco, Einaudi, Torino, 2015.
Recensione di Michele Cavallo per La Psicoanalisi, n. 59, 2017, in press.
Si sentiva il bisogno di un altro libro biografico su Freud? Si, assolutamente. Soprattutto dopo l’uscita degli ennesimi testi dei demolitori (i cosiddetti Freud bashing): Il libro nero della psicoanalisi e Crepuscolo di un idolo. Ultimi di una lunga serie iniziata nei primi anni ’80 con i lavori di J. M. Masson, poi di P. Swales e A. Grünbaum. Lavori in cui si cerca di costruire un’immagine di un Freud abusatore e impostore. Immagine già smentita dalla biografia di Peter Gay, ma che l’attuale lavoro della Roudinesco contribuisce a chiarire grazie alle fonti storiografiche più recenti e a un apparato critico intelligentemente ripartito.
Il testo è diviso in quattro parti:
1) L’ingresso nella vita. Gli inizi, gli amori, le ambizioni del giovane medico, l’incontro con l’isteria e l’invenzione di un nuovo metodo.
2) La conquista di un nuovo sapere. Le amicizie tormentate, la società della belle époque, i primi discepoli e i dissidenti, il viaggio in America con Jung, la grande guerra e il crollo degli imperi.
3) Nella sua casa. Dopo la grande guerra il cambiamento epocale, i lumi oscuri e l’istinto di morte, la vita in famiglia circondato dai suoi oggetti d’arte e dai suoi cari, la messa a punto dell’arte del divano, la vita tra le sue donne: Martha, Minna, Anna.
4) Gli ultimi tempi. L’importanza degli studi sull’origine della religione, l’identità ebraica, l’ascesa del nazismo, la difficile posizione, il tentativo di resistere, l’esilio, la morte.
È il racconto in contrappunto dell’esistenza e dell’opera di un uomo immerso nella incredibile epoca storica che ha attraversato e che lo ha attraversato: dalla Vienna imperiale alla grande guerra e al crollo degli Imperi, dalla repubblica di Weimar alla crisi economica e all’ascesa del nazismo.
Ne emerge un ritratto estremamente ricco di sfumature, di ambivalenze, di profondità. Ritratto di un uomo ambizioso, indefesso lavoratore, conservatore illuminato, demolitore di illusioni, decostruttore di solide certezze, decifratore di enigmi, erede del romanticismo tedesco e scienziato della natura, scrupoloso ricercatore che tenta in ogni modo di tenere la psicoanalisi nell’alveo delle scienze naturali e allo stesso tempo si avventura nello studio dell’occultismo, della telepatia e soprattutto nel mondo del sogno e dell’irrazionale. Appassionato lettore di Goethe, dei tragici greci e di Shakespeare, collezionista e amante di arte antica, indifferente all’arte sua contemporanea come il surrealismo o il cinema o a scrittori come Proust, di cui dirà: «non credo che l’opera di Proust sia destinata a durare» (103) e ad altri di cui possiamo rammaricarci per l’incontro mancato: J. Joyce, I. Svevo, V. Woolf.
Ebreo viennese laico e critico verso il giudaismo e ogni forma di identità comunitaria, fonda un cenacolo sul modello della repubblica platonica, creando un vero e proprio rito di iniziazione con giuramenti di fedeltà. Un uomo che ha elaborato una teoria che mina le basi della famiglia tradizionale promuovendo la liberazione sessuale e la demolizione di ogni dogma, lui stesso autorità indiscussa, un pater familias al centro di una grande famiglia allargata. Un uomo che è riuscito a liberare il sesso dalla ipocrita morale vittoriana e da falsi pregiudizi scientifici e che per tutta la seconda parte della sua vita si impone un’astinenza sessuale assoluta. Che si circonda di donne di grande valore intellettuale e che restano per lui un enigma. Un uomo che ha avuto il culto dell’amicizia e che spesso ha trattato i suoi stessi discepoli come nemici.
Un grande merito del libro della Roudinesco è di contestualizzare e rendere comprensibili molti aspetti contraddittori utilizzati dai detrattori per costruire l’immagine mefistofelica di Freud.
È avvincente seguire la ricostruzione degli anni della formazione, seguire le tracce che lo hanno portato ad allontanarsi da quel diffuso nichilismo terapeutico degli ambienti medici, ospedalieri, scientifici, in cui tutti si interessavano molto più a comprendere e a descrivere che a curare. L’anatomopatologia cominciava a ricondurre ogni fenomeno psicologico a un sostrato organico, escludendo il soggetto, il caso clinico singolare, la relazione terapeutica, la parola. Un approccio che non si «occupava affatto degli alienati che aveva in cura, preferendo dedicare il tempo a studiare l’anatomia del cervello allo scopo di arrivare a proporre una classificazione ‘naturale’ dei disturbi mentali» (41). Freud non condivideva questa mitologia cerebrale (oggi tornata in auge prepotentemente con le neuroscienze) né l’atteggiamento di nichilismo terapeutico. L’incontro con Charcot, Brernheim e Breuer gli offrì la possibilità di passare dalla clinica descrittiva dello sguardo alla clinica della parola e dell’ascolto.
Né psichiatra né sessuologo, non prescriveva rimedi e non utilizzava mai il vocabolario degli alienisti, per lui erano importanti: l’inconscio, il transfert, la parola, la sessualità, la nevrosi (che distingue da psicosi e da perversione). L’origine dei sintomi nevrotici era da ricondurre a traumi sessuali subiti nell’infanzia. Si trattava di seduzioni o aggressioni da parte di figure adulte. È la prima rivoluzione terapeutica di Freud: la causa della nevrosi non ha nulla di ereditario o di neurologico. C’è una causa traumatica. Bastava portare alla luce il trauma e la nevrosi sarebbe scomparsa (come nella confessione!). Prende le distanze anche dalla sessuologia dell’epoca, troppo legata alla biologia, all’igienismo (volto a stabilire comportamenti, norme, deviazioni-perversioni, classificazioni) e poco preoccupata della clinica.
Ma alle soglie del nuovo secolo abbandona progressivamente anche la teoria della seduzione, del trauma. Abbandona l’importanza data ai fatti, alla descrizione dei comportamenti realmente accaduti, si dedica all’interpretazione dei discorsi e delle parole alla luce della relazione terapeutica (del transfert). Comincia a capire che la maggior parte delle scene traumatiche descritte dai pazienti derivano da un fantasma, da una rappresentazione immaginaria che filtra ogni evento della vita (accaduto, accennato, pensato, sognato, immaginato….). Anche se un evento traumatico c’è stato, è comunque filtrato dal fantasma. Il terapeuta deve discernere i diversi piani: l’abuso reale, la seduzione psichica, il fantasma, la riattualizzazione nel transfert. Ecco allora che il metodo psicoanalitico prende la sua forma: esplorazione dell’inconscio e cura attraverso la parola. La sessualità reale/fantasmatica è al cuore dei turbamenti nelle relazioni familiari. Ora più che prima, non è il caso di attardarsi a descrivere stupri, patologie sessuali, pratiche erotiche, comportamenti istintuali, a misurare, calcolare, valutare e redigere norme igieniche. Ecco perché non si considera un sessuologo e non cerca di normalizzare la condotta sessuale.
La sessualità è pensata da Freud in un modo inedito, concepita come disposizione psichica universale soggiacente a ogni attività umana. Non è dunque la sessualità in quanto condotte, costumi, orientamenti sessuali ad essere fondamentale, quanto le sue forme e le sue fonti: la pulsione, la libido, l’investimento e l’appoggio, la bisessualità originaria , il piacere-soddisfazione, il desiderio (80). Il posto che assegna alla sessualità, in particolare a quella infantile, è inaccettabile per l’epoca! L’accusa di pansessualismo, che addirittura molti suoi allievi gli rivolsero, portò a rifiuti estremi della psicoanalisi in quanto dottrina oscena, scandalosa, perversa.
Con questa rivoluzione simbolica cambiò lo sguardo con cui l’intera epoca guardava e pensava se stessa. Le donne isteriche furono all’origine di questa invenzione, con la loro parola contribuirono a scrivere i primi e fondamentali capitoli di questa nuova scienza. È il caso di Bertha Pappenheim (Anna O.), curata da Breuer e soprattutto di Ida Bauer (il caso Dora), considerata da Freud la sua prima cura analitica. Intanto, nella sua vita, dato che dall’ ’87 al ’95 Martha gli aveva dato sei figli, per non rischiare altre gravidanze, Freud aveva deciso per l’astinenza completa. A quarant’anni il teorico della sessualità aveva rinunciato a ogni relazione sessuale. L’autrice fa apparire quantomai infondate le voci su una relazione con Minna (sorella minore di Martha), niente negli archivi depone per questa ipotesi. Insiste sul fatto che Herr Professor dedicherà tutta la sua passione all’edificazione della nuova disciplina: «una scienza dello psichismo in grado di sovvertire il campo della psicologia» (80,); che cercherà di fondare questa dottrina nel solido terreno delle scienze naturali: da qui la contraddizione di un Freud attratto dalla neurologia, dalla biologia, dalla fisiologia, e di un Freud che si oppone a ridurre la genesi dei sintomi a qualsiasi fattore organico, inventore di un metodo per esplorare le correnti sotterranee della psiche, erede dell’illuminismo critico e del romanticismo nero, che trovava nella tragedia, nei miti, nella letteratura e nell’arte le fonti delle sue intuizioni. Lui stesso si vedeva come un eroe alla conquista di un nuovo mondo: un Ulisse, un Dante, un Faust. Un eroe ribelle, considerato un reazionario dagli attivisti politici, un letterato dagli accademici, un impostore da molti medici, un conservatore dai sessuologi del tempo, un pericoloso cattivo maestro pervertitore della morale dai benpensanti.
Discepoli e dissidenti
Il libro dedica ampio spazio alle vicende dei discepoli e in particolare ai dissidenti. Il primo nucleo di discepoli si ha con la creazione della Società psicologica del mercoledì nel 1902, dove troviamo tra pochi altri: Alfred Adler e Wilhelm Stekel, raggiunti poco dopo da Paul Federn, Hugo Heller, Isidor Sadger. Costituirono un cenacolo che assomigliava molto a una famiglia allargata dove molti di loro venivano presi in cura dal padre Freud, a loro volta prendevano in cura familiari, amici, amanti; si analizzavano continuamente tra loro esponendo i propri casi clinici in occasione delle riunioni e degli scambi epistolari. Dopo qualche anno si aggiunse Otto Rank. Nel 1907 sciolta la Società del mercoledì, venne creata la Società Psicoanalitica di Vienna aperta a discepoli stranieri. Tra il 1907 e il 1909 entrarono a farvi parte: Max Eitingon, Sandor Ferenczi, Karl Abraham, Carl G. Jung, Ernest Jones. Nel 1908 a Salisburgo la prima grande riunione di allievi da tutta Europa. Nel 1910, con Ferenczi, Freud fonda l’Associazione Internazionale di Psicoanalisi, affidandone la direzione a Jung. Molte pagine sono dedicate alla vicenda Freud/Jung, facendo chiarezza su molti aspetti che spesso nell’immaginario sono rimasti oscuri o distorti: l’incontro, il viaggio in America, la rivalità, la separazione e la “guerra fredda”.
Adler fu il primo dissidente, si allontanò dal cenacolo nel 1911. L’anno dopo il doloroso strappo di Jung. Molteplici i fattori che portarono a tale allontanamento, la Roudinesco porta in evidenza sia i motivi teorici, sia le incompatibilità di due forti personalità così diverse. «Ciò che divideva i due non era il desiderio di Jung di “uccidere il padre” [come sosteneva Freud] ma piuttosto l’impossibilità, per l’uno come per l’altro, di condividere una stessa concezione della clinica, della psiche e della sessualità» (159). Il testo fa luce sulle vicende poco conosciute di discepoli controversi e a volte “maledetti”. Ad esempio, Otto Gross, brillante psichiatra, allievo estremista e dissoluto, abbandonato dal movimento finì i suoi giorni come homeless sui marciapiedi di Berlino. Ben nota è invece altra vicenda controversa, già nel 1906 Freud era stato interpellato da Jung per un difficile caso: Sabina Spielrein, che sarebbe divenuta l’amante di quest’ultimo e successivamente confidente e allieva del primo. Altro caso che ha sempre imbarazzato gli psicoanalisti è quello del geniale discepolo Viktor Tausk, amante di Lou Salomé, psicotico, morto suicida. Così come quello di Hermine von Hug-Hellmuth, discepola membro della scuola, strangolata dal nipote che stava analizzando. Contestualizzato è anche il caso di Wilhelm Reich, allievo impetuoso e anarchico, entrato nel movimento nel 1919, che prese la teoria sessuale alla lettera credendo di poter liberare gli esseri umani da ogni sofferenza attraverso la felicità orgiastica. Anche lui finì tristemente i suoi giorni, in un penitenziario con una diagnosi di psicosi. Per molti anni anche il dissidio con Ferenczi e con Rank – i due discepoli più amati – è stato adombrato dalla versione datane da Jones nella sua opera sul maestro, la ricostruzione qui fatta rende giustizia. Nel 1937 Freud scriverà due articoli, che cercano di rifare il punto rispetto alle aporie dei suoi due ex allievi preferiti: Rank e Ferenczi. In Analisi terminabile e interminabile, ribadisce che Rank, con la teoria del trauma della nascita, cercava di eliminare la causalità psichica della nevrosi; inoltre critica il tentativo di abbreviare la durata della cura sottolineando come tale tentativo fosse legato a una congiuntura storica: la miseria del dopoguerra europeo di contro alla prosperità dei paesi vincitori; andava inteso come sforzo di “adeguare il ritmo della terapia analitica alla concezione della vita americana” (una sorta di fast-therapy). Quanto a Ferenczi, criticava in questo “maestro dell’analisi” il pericolo rappresentato dalla ricerca permanente di un ritorno all’ipnosi come sostituto all’analisi del transfert. Bisognava invece accettare che la pratica della psicoanalisi era l’esercizio di un compito impossibile e che non si poteva mai essere sicuri, in anticipo, del risultato. Lo sforzo terapeutico, diceva, oscilla tra analisi dell’Es e analisi dell’Io. Senza questa oscillazione non può esserci successo terapeutico. L’analista non deve prendere la posizione di un padrone, di un ideale onnisapiente e onnipotente, lui stesso non è più normale del paziente e trasformandosi in partner “attivo” (come suggerisce Ferenczi), diviene ancora più esposto ai rischi dell’analisi. È questa la ragione per cui periodicamente, ogni cinque anni, l’analista dovrebbe risottoporsi al trattamento analitico, invece che cercare di apaprire sano e realizzato e di controllare il contro-transfert (399).
Per quanto riguarda Ernest Jones, pur non amandolo Freud capì che poteva essere l’uomo della situazione, colui che poteva organizzare la scuola e fornire i rapporti politici per la trasmissione della sua opera, per la normalizzazione della pratica e l’estensione mondiale della scuola. E così fu. Già nel 1911 crea l’American Psychoanalitic Association, nel 1919 la British Psychoanalytic Society, nel 1920 l’International Journal of Psychoanalysis, impose la supremazia del mondo anglofono ostacolando i berlinesi (Eitingon e Abraham) e gli ungheresi (Ferenczi e Rank), affidò a Strachey la traduzione dell’opera del maestro che portò alla Standard Edition, fu anche l’artefice del tentativo disastroso e ambiguo di salvataggio della scuola a Berlino sotto il nazismo, poi l’organizzatore dell’esilio di Freud a Londra, infine il suo biografo ufficiale e il garante, insieme ad Anna, delle pubblicazioni e degli archivi. Dopo la grande guerra, era diventata sempre più urgente la questione della formazione dell’analista e dell’analisi laica (Laienanalyse), praticata dai non medici. Per Freud la psicoanalisi non era una scienza medica né un’ancella della psichiatria, ma la linea anglosassone progressivamente si impose. Nel 1920 Eitingon e Abraham fondarono L’Istituto Psicoanalitico di Berlino, primo istituto di formazione, modello per tutti quelli che verranno. Lentamente le redini furono prese dalla corrente anglosassone e Londra divenne il centro della scuola. Un ruolo decisivo in tale spostamento di asse lo ebbe la pressione nazista. Il testo mostra come all’inizio dell’ascesa di Hitler il movimento assunse un dannoso neutralismo, anche quando l’annessione dell’Austria fu compiuta Freud si ostinò a pensare che le cose non sarebbero degenerate, persino con la messa al bando della sua opera e del marchio di scienza ebraica dato alla psicoanalisi, Freud e Jones cercarono il salvataggio dell’Istituto di Berlino, accettando di lasciarlo sotto il controllo dello psichiatra M. Göring – cugino del maresciallo del Führer – che ambiva a fare della psicologia junghiana il modello della psicoterapia hitleriana. Estremo tentativo di salvare la psicoanalisi, quasi incomprensibile. Espulsi tutti i psicoanalisti ebrei, rimasero pochi illusi, e Göring si assicurò la collaborazione di Jung, il quale arrivò a fare un ritratto apologetico di Hitler e della gioventù tedesca (388). L’inconscio collettivo e la psicologia degli archetipi ben si addicevano alla mitologia nazista. In generale, per i freudiani, l’atteggiamento di neutralità, di non-impegno, di apoliticità rimase come inclinazione difficile da evitare anche in futuro (Spagna, Argentina, Brasile). Quando giunse il momento dell’esilio, la terra per accoglierlo non poteva che essere l’Inghilterra. Considerava l’America un paese senza futuro. Così come temeva ogni forma di tirannia, Freud temeva la democrazia americana. Riteneva che «l’aspirazione smodata alle ricchezze fosse tanto pericolosa quanto la sottomissione alla tirannia. Pensava che l’America sarebbe stata divorata un giorno dai suoi tre demoni: la follia puritana, la ricerca spasmodica della performance sessuale, la speculazione illimitata» (418).
Altra vicenda che emerge dal testo chiarificata è quella di Anna Freud, sia nei suoi rapporti con il padre, che con il movimento e i discepoli che negli anni si sono avvicendati, sia nella sua relazione con Dorothy Burlingham. La Roudinesco ricorda che nella sua vita Freud ha analizzato circa 160 persone, ne vedeva otto al giorno; fino al 1914 i pazienti provenivano dall’Europa continentale, dall’aristocrazia e borghesia degli Imperi, dopo la grande guerra saranno soprattutto inglesi, francesi, americani. Fino alla fine non ha mai ceduto sul suo desiderio di costruire una disciplina clinica in grado di porsi come alternativa scientifica alla neurologia, alla psichiatria e alla psicologia.
L’autrice ribadisce (229) che Freud aveva inventato una “disciplina” impossibile da integrare, non solo nel campo della scienza pura ma anche in quello delle scienze umane, che erano allora in piena espansione a partire dalla fine del XX secolo. Per gli scienziati la psicoanalisi aveva a che fare con la letteratura, per gli antropologi e i sociologi testimoniava una rinascita delle antiche mitologie, agli occhi dei filosofi assomigliava a una strana psicologia sorta al contempo dal romanticismo e dal darwinismo, mentre agli occhi degli psicologi la psicoanalisi sembrava mettere in pericolo il principio stesso di ogni psicologia. Pertanto, la psicoanalisi era rifiutata da tutte le discipline accademiche, al punto da apparire come la proprietà di un maestro che aveva il progetto di restaurare il simposio socratico, anziché favorire lo sviluppo del sapere moderno. (…) Quanto all’intento terapeutico della psicoanalisi, essa non entrava né nel campo della medicina né in quello della psicologia, anche se alcuni la consideravano suscettibile di “influenzare” la psichiatria a partire dal magnetismo. In realtà, la clinica freudiana consisteva in un’arte dell’interpretazione in grado di ottenere dal paziente la conferma di una costruzione, resa possibile dal transfert e dal lavoro della cura. In questo senso, essa demoliva il nichilismo terapeutico, che consisteva nel classificare le malattie psichiche senza mai ascoltare il malato. Ancora oggi questo atteggiamento sembra demarcare gli approcci propriamente psicoanalitici dalla maggior parte delle psicoterapie che appartengono a un universo etico ed epistemologico pre-freudiano.