Michele Cavallo
La prima parte di questo testo è stata pubblicata in: Appunti – Rivista della SLP, n. 128 anno XVIII, settembre, 2014, con il titolo “Dal Simposio: sfera e atopia per leggere il transfert”.
La seconda parte è tratta dalla relazione “Transfert è topologia”, presentata al XII Convegno della SLP del 14-15 giu 2014 a Roma.
La parte su “Transfert virtuale”, è un estratto delle lezioni al corso di laurea in Psicologia presso l’Università Europea di Roma del II semestre a.a. 2021-2022.
Che cos’è il transfert?
Un legame particolare che si instaura tra paziente e analista. Un legame che ha i connotati dell’amore. Un legame che permette di rileggere e riscrivere i legami fondamentali del passato. Quindi il transfert è il punto di leva necessario per la cura analitica. Punto di leva necessario ma non sufficiente. Quel legame “amoroso” in cui il paziente proietta sulla figura dell’analista il proprio mondo affettivo, con le sue dinamiche ambivalenti, inconsce, rischia di essere confusivo e trascinare i due in un pantano in cui le nebbie e i miasmi del passato rendono impossibile procedere. Il transfert non è un semplice fenomeno che si da, non è un dato, è un processo, un’esperienza che deve essere costruita, elaborata, trasformata. Da “legame” d’amore può (e deve) diventare “motore” di un nuovo amore, amore per…
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Derisione della sfera
Troviamo nel Sem VIII[1] due concetti su cui Lacan ritorna spesso: la sfera e l’atopia. Li troviamo nei capitoli dedicati alla lettura del Simposio di Platone. Il primo, la sfera, si riferisce al discorso di Aristofane in cui si narra il mito dell’essere originario che, per la sua tracotanza, viene tagliato in due da Zeus. Il secondo, l’atopia, fa riferimento all’irruzione di Alcibiade a cui segue il movimento di Socrate che si smarca dalla posizione di amato, rimandando l’amante a cercare altrove la vera causa del suo desiderio.
Il mito dell’essere unico, autosufficiente-androgino che tutti conosciamo non sarebbe altro, per Lacan, che una burla. Derisoria la teoria della spinta alla riunione con la metà perduta della mela, spinta che animerebbe tutti e che sarebbe al fondo di ogni amore. Incluso l’amore di transfert. Lacan riprenderà questa questione più volte negli anni. Suggerisco due successive tappe di elaborazione: nel Sem XI con la proposta di un nuovo mito, quello della lamella (la libido). Nel Sem XX con la nozione di Uno. Sono due tappe in cui cerca di avanzare proprio sulla teoria dell’amore, avendo qui decostruito il mito della sfera.
Per Lacan, nel Simposio l’unico che parli dell’amore come si deve è un buffone. Il discorso sull’amore è messo in bocca a un poeta comico, che ne fa appunto una parodia. E di cosa parla? Di un essere sferico delle origini, tagliato in due metà che desiderano giorno e notte di riattaccarsi, di saldarsi e rifondersi in uno. È un’immagine grottesca eppure non fa ridere, in chi legge o ascolta ha un effetto patetico o addirittura drammatico. Poiché tutti riconoscono questa irrefrenabile tensione, impossibile da realizzare. Due che aggrappandosi l’un l’altro con una tenacia che non lascia scampo muoiono fianco a fianco per l’impotenza a ricongiungersi. D’altronde, come Lacan ricorderà nel Sem XX: «non si è mai visto un corpo attorcigliarsi completamente, fino a includerlo e fagocitarlo, attorno al corpo dell’Altro».[2] E se capita di vedere due corpi che diventano uno, vuol dire che siamo all’inferno. Dante nel canto XXV ce ne dà un’immagine mostruosa: un demone-rettile che si aggrappa al corpo del dannato come l’edera agli alberi, i due corpi iniziano a fondersi come la cera calda, ormai né due né uno. I due sono perduti nella nuova forma, in cui ogni aspetto originale è cancellato, la fusione non ha creato un nuovo individuo, ma un mostro trasfigurato. Il desiderio dell’Uno, della sfera, genera mostri.
Allora, perché la sfera ha un fascino che attrae più di ogni altra figura?
La sfera «ha tutto ciò che le occorre all’interno di sé stessa. Essa è rotonda, piena, contenta, ama se stessa e soprattutto non ha bisogno né di occhi né di orecchie, perché è per definizione l’involucro di tutto ciò che può esserci di vivente, è il vivente per eccellenza».[3] La sfera rappresenta l’idea di completezza, di perfezione, di armonia, di assoluto ed eterno che l’amore cercherebbe di ricomporre attraverso la complementarità. Due per fare Uno. Due metà per rifare la mela completa. Il fascino di questa forma ha il suo fondamento nella struttura immaginaria. L’adesione affettiva a questa figura è data dalla rimozione della castrazione. Dal rifiuto di spigoli, di vuoti, di incavi. Una sfera è tutta-piena, regolare, completa, una mela senza morsi (non come quella di Apple).
Platone, che pur identifica il bene nell’Uno e il male nel Due, si burla di Aristofane mettendogli in bocca questa spiegazione derisoria. Attraverso un buffone si può far vacillare un’immagine così potente e radicata nella mente umana. Far deviare nel grottesco una tendenza così universale, per poterla poi rettificare. L’amore, così inteso, è un sentimento comico. Il rapporto sessuale un patetico tentativo di fare uno. E l’Aristofane di Platone ne dà anche la soluzione: ricucire i genitali sul lato anteriore di ogni metà, così da permettere se non la saldatura almeno l’incastro (fallico). Non dimentichiamo che Aristofane è il principale avversario di Platone e che il Simposio è una risposta alle critiche sarcastiche che il commediografo aveva rivolto[4] alle tesi utopistiche della comunione sociale (kallipolis) contenute nella Repubblica. Per vendicarsi Platone mette in bocca ad Aristofane proprio una teoria parodistica della ricerca utopica dell’unione armonica.[5] Si vendica mettendo in bocca al poeta comico una teoria grottesca, materialista, meccanica, immaginaria, anatomica dell’amore (che non rappresenta certo l’idea di Platone). Infatti dopo l’intervento di Aristofane parla Socrate e dice: «Si sente fare un certo discorso, secondo cui quelli che amano sono coloro che cercano la loro metà. Il mio discorso dice, invece, che l’amore non è amore né della metà né dell’intero», ma amore del vero e del bene (Simposio, 206e).
Perché è così importante questa digressione sulla sfera nel discorso sul transfert?
Troppo spesso tra gli analisti post-freudiani (soprattutto dell’Ego-Psychology) si è fatto del transfert un fenomeno immaginario. Un fenomeno in continuità con ciò che accade nelle traslazioni d’affetto nella vita quotidiana. Nella vita quotidiana emergono fenomeni di transfert in modo spontaneo, quasi naturale; fenomeni in cui si trasferisce su una figura un insieme di aspettative e affetti, sulla base di una rievocazione delle relazioni fondamentali della propria infanzia. In qualcuno qualcosa di primario risuona, somiglia, promette. Ciò è sufficiente a innescare un legame che ha tutte le carte dell’innamoramento. Può essere una figura qualunque, non importa il genere, l’età, la condizione, le effettive qualità; non importa neanche se faccia parte della realtà del soggetto (può essere una figura che si conosce ma con cui non si è in relazione: un attore del cinema, uno scrittore, un personaggio pubblico…). Il transfert, a questo livello, è equivalente all’infatuazione, alla suggestione e si alimenta di fenomeni di regressione, di sovrapposizione (a volte allucinatoria), di fantasie, di identificazioni, di riattualizzazione, di ripetizione. Siamo al livello immaginario del transfert. Da qui Freud è partito e lo ha visto come ostacolo alla cura. Ha visto che nell’inconscio del paziente il terapeuta prende il posto della persona che nella vita infantile era l’oggetto delle aspettative, degli investimenti affettivi. Ecco perché il transfert dipende dai modelli, dalle imago parentali, dalle relazioni primarie a cui il bambino ha rivolto le domande, i desideri, le attese, le paure e l’angoscia. Nei momenti di crisi tali dinamiche si riattivano e vengono proiettate su figure sostitutive. Il terapeuta diventa l’oggetto di questo «trasferimento» rivissuto con tutta l’ambivalenza che ciò comportava e comporta. Non a caso Freud distingue due tipi di transfert: uno positivo (caratterizzato dall’attivazione di sentimenti positivi e da idealizzazione), uno negativo (emersione di sentimenti ostili, aggressivi).
In ogni caso, nel transfert si riattualizza l’essenziale del conflitto infantile. Ma proprio per questo Freud ne farà la leva della cura. A partire dalla constatazione dell’emersione del transfert spontaneo nel paziente, si è fatta strada la necessità per l’analista di capire come usare questo fenomeno, come dirigerlo e trasformarlo nello strumento di cura. Se l’analista sostenesse il transfert mettendosi nel posto di sostituto dell’oggetto primario, madre o padre (come spesso è stato fatto dai post-freudiani), per il fatto che anche quest’ultimo è a sua volta un sostituto dell’oggetto perduto (x), l’analista si troverebbe nella posizione della metà grottesca della sfera divisa di Aristofane. Ecco perché l’analista non può incarnare l’immagine dell’oggetto primario, né l’Ideale dell’io. Otterrebbe solo effetti immaginari (affetti consolatori, emozioni correttive, idealizzazione) e mancherebbe la vera molla simbolica del transfert. Molla che si installa a partire dalla domanda, come vedremo, senza che l’analista vi risponda, senza che la chiuda e faccia da complemento. Invece, facendo dell’analista il sostituto dell’oggetto primario, perduto, il transfert è stato ricondotto al fascino della suggestione, della complementarità, dell’unione, del recupero dell’oggetto, della ripetizione, dell’identificazione narcisistica all’ideale. Per Lacan il transfert non è la messa in atto dell’illusione che ci spingerebbe a quell’identificazione alienante, primaria o ideale che sia.
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Il transfert nella direzione della cura
Transfert come ostacolo o come leva della cura?
Abbiamo visto come all’inizio Freud considerasse la traslazione un ostacolo alla cura, una resistenza del paziente a rievocare il vero desiderio inconscio. Ma poi si rende conto che è anche il modo di osservare “dal vivo” la dinamica inconscia del paziente. È il modo privilegiato per cogliere a caldo gli elementi del conflitto infantile. In effetti, la condizione in cui si attiva il transfert diviene il luogo in cui il paziente si trova di fronte alla forza del suo desiderio e delle sue fantasie inconsce rimosse, fonte dei suoi sintomi. È il luogo dove prende il terapeuta per un «altro», dove il passato si fa presente, dove può riproporre le domande fondamentali su cui si era arenata la relazione con l’Altro. Con il terapeuta può riproporre, aspettative, domande, attaccamenti provati nell’infanzia; può riattualizzare gli antichi schemi affettivi e relazionali (fantasma). Questa riedizione di pulsioni e fantasie, dall’analista deve essere risvegliata e resa cosciente durante il progresso dell’analisi. Freud sottolinea che il transfert è legato a imago fantasmatiche, e in quanto tale è sì una ripetizione delle esperienze del passato ma non va intesa nel senso della realtà, come se l’attualizzazione fosse ripetizione di relazioni effettivamente vissute nella vita infantile:
- da un lato ciò che è trasferito è essenzialmente la realtà psichica di allora (il desiderio inconscio e le fantasie ad esso connesse),
- d’altro lato, le manifestazioni transferali non sono ripetizioni letterali, mimetiche; ciò che si attualizza sono significati, domande, tratti identificatori.
In fondo, il paziente attraverso il transfert non fa che continuare a domandare le cose che sono per lui importanti. Ed è ciò che l’analista deve risvegliare, far emergere, poiché la riattualizzazione di tali dinamiche offre al terapeuta una fondamentale occasione di analisi, di interpretazione, di cura. Deve risvegliare tali domande inconsce ma non deve prendersi per quello che non è, cercando di darvi risposta. Già da subito, il paziente che si rivolge allo psy ha delle aspettative, lo immagina come colui che sa (sa della sofferenza, sa riconoscerlo, sa comprenderlo). Suppone che lo psy sia colui che è in grado di:
- Sapere (colui che sa qualcosa sul mio sintomo che io non so)
- Riconoscere (colui che mi riconosce, mi vede, mi ascolta, mi accetta)
- Amare (colui che mi consola, che mi ama)
Già dal primo contatto, il paziente chiede di ricevere dall’altro tutto questo. Se l’analista risponde letteralmente a queste domande, chiuderà le porte dell’inconscio, farà da complemento, cioè da tappo. Invece, a partire dai colloqui preliminari, dovrà cercare di verificare e consolidare il transfert per poi favorire il passaggio dal transfert automatico, suggestivo, immaginario, al transfert analitico. Per poter fare del transfert la leva della cura, è necessario che l’analista non si ponga nella posizione della figura primaria, fantasmatica (di padre, di madre, di fratello) che soddisfa la domanda, ma piuttosto si astenga, sottraendosi alle richieste di amore, di aiuto, di consiglio, di approvazione. È necessario che non si ponga come modello, come guida: «Noi ci siamo decisamente rifiutati di fare del malato che si mette nelle nostre mani in cerca di aiuto una nostra proprietà privata, di decidere del suo destino, di imporgli i nostri ideali e, con l’orgoglio del creatore, di plasmarlo a nostra immagine e somiglianza per far piacere a noi stessi […], il malato non deve essere educato a somigliarci, ma piuttosto a liberarsi e a realizzare compiutamente la sua stessa natura».[6]
Generalmente il passaggio dal transfert immaginario al transfert analitico è segnato dai sogni di transfert del paziente e dalla loro interpretazione. Solo intendendolo in questo modo, il transfert può essere utilizzato clinicamente e passare da ostacolo, da sintomo, da suggestione, da mera ripetizione, a punto di leva della cura. Invece di rispondere e di soddisfare la domanda, l’analista la fa emergere e la rende intransitiva, tenendo aperta l’interrogazione all’inconscio. Se all’inizio il paziente chiede all’altro (al terapeuta) il sapere su sé stesso, il riconoscimento, l’ascolto, l’accettazione, la comprensione, la consolazione, la definizione di sé, con lo spostamento del transfert sul suo inconscio, sull’enigma che egli stesso è, il paziente chiederà al suo stesso lavoro analitico di svelare le verità del suo essere. Dal transfert sul lavoro avrà la possibilità di riconoscersi per quello che è, di valorizzare il suo modo singolare di amare e di amarsi e il suo modo di cercare la soddisfazione.
L’analista opera per favorire questo passaggio dal transfert sull’analista al transfert sull’inconscio.
Come fa, il terapeuta, a favorire questo passaggio dal Ti al Ts?
- A partire dai colloqui preliminari, progressivamente si svincola dall’essere il sostituto dei genitori. Si smarca da questa posizione di potere e di sapere sull’essere del paziente.
- Attraverso l’interpretazione, fa emergere le antiche richieste, le aspettative che vengono proiettate sulla figura del terapeuta.[7]
- Il transfert immaginario (Ti) dà all’analista l’autorità per poter interpretare, a questo punto l’interpretazione rafforzerà il transfert e consentirà il passaggio dall’immaginario al simbolico, dalla proiezione affettivo, sentimentale, alla domanda intransitiva. Il Ti sarà depotenziato e il transfert simbolico (Ts) prenderà posto. Tra transfert e interpretazione si instaura un circolo virtuoso Ti > interpr > Ts > interpr.
- L’analista non si pone come colui che risponde alla domanda, ma la rende intransitiva, provoca un continuo rilancio che consente al paziente di connettersi con il suo inconscio e di elaborare il desiderio sotteso a ogni domanda (in quanto domanda d’amore).
- L’analista, non mostrando alcuna aspettativa rispetto al paziente, si smarca dall’essere preso per il padre, la madre, la guida, il modello…. Permette al paziente di concentrarsi sul proprio mondo interiore…
Il passaggio dal Ti al Ts è ben rappresentato dai due concetti che Lacan estrae dal Simposio: la sfera e l’atopos. Si tratta del passaggio dell’analista da complemento sferico (immaginario) ad atopos (simbolico). Da sfera > ad atopos. Che posizione è questa?
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Analista atopos
La questione del transfert, quindi, non si limita a ciò che avviene spontaneamente nel paziente, nell’analizzante, alla sua tendenza a farsi sfera pensando l’analista come suo complemento. Il transfert chiama in causa la posizione dell’analista, il suo desiderio. E il rischio è che anche quest’ultimo si pensi come metà della mela. Lasciando così che il transfert si impantani nelle paludi dell’immaginario. Come fa l’analista a smarcarsi da quella rischiosa posizione?
Lacan mostra come la posizione di Socrate può illuminarci sull’atopia che “si richiede” all’analista.[8] E qual è nel Simposio questa atopia? Nel momento in cui irrompe Alcibiade e confessa spudoratamente il suo amore per lui, chiedendogli un segno, Socrate risponde dicendo che è ad Agatone che in realtà sta indirizzando quell’elogio erotico. Così facendo lo induce a interrogare il suo desiderio. Socrate dice: io non sono quello che pensi, non sono lì dove mi guardi. Occupati della tua anima. Guarda meglio, se no ti sfuggirà che io non sono nulla. Là dove tu vedi qualcosa, io sono niente. In me non c’è nulla di amabile. La sua posizione, quindi, è quel vuoto, quell’incavo, kenosis opposto al pieno, spheros. Come spazio vuoto tra… non è né eromenos né erastes. A partire dalla sua atopia, dal nessun luogo del suo essere, a partire da una posizione paradossale, Socrate esercita il suo fascino: non dice quasi niente, ma attorno a questo quasi-niente ruota tutta la scena, mette in moto la prassi del discorso, un discorso che genera in sé la dimensione della verità.
Cosa vuol dire questa sua atopia? Che non lo si può ficcare da nessuna parte, non si riesce a collocarlo. Ed è proprio questo l’essenziale che continua a interrogarci: cosa era il desiderio di Socrate? Cosa è quell’atopia del desiderio, inclassificabile e insituabile?
Allo stesso modo, l’analista può occupare uno spazio tra. Uno spazio che egli deve «offrire vuoto al desiderio del paziente».[9] Qui, la sua posizione non può essere pensata come posto fisso e assegnato, come collocazione in uno spazio euclideo o cartesiano. È necessario pensarla in uno spazio mobile che permetta spostamenti. In questo senso servirà la nozione di topologia per pensare questo insituabile. Infatti, questo atopos impedisce all’analista di pensarsi, di fissarsi, di identificarsi nel posto di grande A, di SsS, di $, di simile i(a). Forse il nome che più rende conto di questa non-posizione dell’analista è quella di resto, oggetto niente. L’analista come agalma, oggetto a, cioè oggetto niente, vacuolo.
Possiamo ora accennare a come questa atopia del desiderio dell’analista sia particolarmente evidente nel trattamento della psicosi. Quando nella psicosi si produce una domanda analitica abbiamo i fenomeni di «transfert delirante», qui la posizione dell’analista non deve essere quella di fare enigma e rimandare a significati inconsci, ma di incarnare un significante qualunque, di essere quasi-nulla. In questi casi, l’analista non può pensarsi in uno spazio euclideo o cartesiano, ma in uno spazio topologico, atopico, insituabile. Miller ha sottolineato come anche l’analista che incarna l’oggetto a, sia una posizione problematica nella psicosi. Poiché è lo psicotico stesso ad essere l’oggetto a (scarto o più-di-godere; l’oggetto lasciato cadere o colmo di godimento; cadavere, carogna, oppure dio, Uno. In ogni caso non separato dal reale del godimento).[10] Anche nel transfert nevrotico l’atopia mi sembra importante: ci saranno soggetti con cui saranno giocate alcune posizioni, ci saranno momenti in cui saranno importanti alcuni sembianti d’essere dell’analista in funzione di atopos. Funzione da tenere sempre viva, dice Lacan, per dirigere la cura e «per ricondurci allo stupore».[11]
Quella dell’analista è, quindi, una funzione e una posizione atopos, da pensare attraverso la topologia. Potremmo addirittura dire che il transfert è la topologia. Qui l’accento sulla è fa dell’accostamento una copula. Quasi una provocazione per sottolineare che se la topologia è essenziale a ogni elaborazione dell’esperienza analitica, lo è anche per il transfert. Come recentemente notava Miller: «per Lacan in fondo il reale è la topologia, non è una materia, è una pura relazione di spazio (…) non si tratta di nulla di sensibile» (La Psicoanalisi n. 51, p. 225). Direi quindi: è una pura relazione di spazio e di tempo “impossibili”, ovvero spazio topologico e tempo reversibile (res extensa non euclidea – res cogitans non lineare). Vediamo allora in che senso il transfert è una pura relazione di spazio. Spazio topologico. Per Lacan «il transfert è la messa in atto della realtà dell’inconscio» (Sem XI, 142). E qual è questa realtà? È sessuale ed è una realtà topologica: ciò che è all’interno è anche all’esterno, ciò che è passato è anche presente. Se la catena significante si articola per successione, la topologia è sincronica, dà conto di un tempo non cronologico (passato-presente-futuro) e di uno spazio non euclideo (dentro/fuori, vicino/lontano). Il transfert sarebbe un fenomeno topologico di reversione temporale (la «proiezione del passato in un discorso in divenire» Scritti, p. 219) e di estrazione dimensionale (oggetto a non localizzabile e non specularizzabile).
Alla luce di ciò possiamo parlare di un ulteriore livello del transfert, dato dal passaggio da immaginario a simbolico a reale.
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Tre livelli del transfert
Possiamo immaginare diversi livelli in cui situare il transfert:
- Immaginario. Suggestione-regressione-ripetizione (amore per la persona dell’analista).
L’immaginario è la forma, è ciò che appare, che si manifesta, ciò che fa identità, personalità, ciò che fa dire “io sono quello” (fondamento dell’alienazione); il simbolico è la divisone del soggetto, è ciò che non fa idem, identità, è ciò che rompe la forma e apre l’interrogazione, cioè mette in moto la catena significante S1-S2…Sn. Nell’immaginario c’è i(a), nel simbolico c’è $ in cui «Il soggetto è rappresentato da un significante per un altro significante» (Sem XXIII, p. 150). A questo livello il transfert è visto come spostamento dell’affetto, come sostituzione e ripetizione, va trattato come rivelatore delle dinamiche fantasmatiche e come strumento per avviare la cura, poiché è in questo “abbaglio” del paziente che l’analista trova l’autorizzazione a interpretare. L’importante è non prendersi per quello che non si è: padre, padrone, madre, matrona, salvatore, saggio… A questo livello l’illusione spinge a rischiose identificazioni alienanti. Non è il caso di prendere neppure il paziente per quello che non è. Non è un/a bambino/a da coccolare, consolare. Non c’è, propriamente parlando, una reale regressione, piuttosto il paziente in analisi ha l’occasione di riproporre e riformulare quelle domande che nella sua infanzia non aveva potuto articolare o che non avevano avuto risposta. L’analista diventa l’Altro della domanda, anzi, durante l’analisi si ritrova a vestire i panni di varie figure dell’Altro della domanda. Le analisi cominciano con una domanda, supponendo che ci sia un altro che può soddisfarla e questo è già il transfert. Di che domanda si tratta? Prima di tutto una domanda di sapere sulla propria sofferenza, sul proprio sintomo, ma anche una domanda sul proprio essere, una domanda di essere riconosciuto, di essere accolto, di essere amato. La prima molla del transfert è quel significante (S) che vuole risposte, è quella domanda iniziale rivolta a un Sq, che si suppone possa soddisfarla. Ma attenzione! Questo significante del transfert ci dà accesso alla posizione primaria dell’inconscio. Rischia, se tenuto al livello immaginario, di interrompere l’accesso, di chiudere l’inconscio. Secondo una pulsazione temporale, sincopata, l’inconscio si richiude non appena si è aperto (Sem XI, p. 140). La seconda molla propriamente simbolica del transfert consiste nello spostare sul sapere inconscio tale domanda, su ciò che Lacan ha chiamato soggetto supposto sapere (SsS).
- Simbolico. Domanda-significante-sapere (amore per il sapere dell’inconscio).
Solo distinguendo il transfert dalla intersoggettività e dalla ripetizione possiamo parlare di soggetto supposto sapere (SsS), che è la vera molla del transfert (Miller, Paradigmi, p. 63). Il paziente suppone che ci sia un sapere da interrogare, da decifrare, che gli darà la chiave per uscire dalla prigione del sintomo (come una escape room). All’inizio l’analizzante suppone un sapere all’analista (una credenza che fa emergere anche un affetto, un amore per l’analista). Ma come nasce tale supposizione? Cosa fa partire la domanda e la credenza che l’analista potrà soddisfarla? Una pre-interpretazione del soggetto che ritiene il suo male di natura psichica, non medica. È l’incontro con qualcosa che fa enigma, qualcosa di opaco (il sintomo, una x), qualcosa che lo riguarda ed è importante capire. È questo il significante del transfert, un S a partire dal quale si domanda: “cosa vuol dire?” e che lo porta a cercare la risposta da qualcuno, uno fra tanti S à Sq. Ne scaturiscono significati che rinviano a un rimosso “supposto”, ecco perché il transfert è l’interpretazione: s(S1, S2,…Sn). Miller suggerisce di intendere «Il transfert come un trasferimento che va dal non sapere al soggetto-supposto-sapere, ma il soggetto-supposto-sapere non è l’analista» (Clinica lacaniana, pp. 52-53). Il sapere supposto è dell’inconscio (amore per il sapere inconscio). Il SsS in gioco nel transfert è l’inconscio. Se all’inizio è il terapeuta ad essere preso per SsS, con l’instaurarsi del lavoro analitico, con l’interpretazione, sarà l’inconscio ad essere il SsS e con l’avanzare del lavoro emergerà che il sapere dell’inconscio stesso è “supposto”: grazie ai tagli e all’atto analitico si incrineranno i significati, le catene associative e le verità fantasmatiche cristallizzate nell’inconscio. Infatti, quello dell’inconscio è un sapere che ripete se stesso, non conosce il tempo. L’esperienza analitica introduce il tempo nell’inconscio: «è una manovra essenziale con il tempo, che costituisce in se stessa una smentita del soggetto supposto sapere» (Miller, Erotica, 26).[12] L’analista ha il compito di aprire al sapere inconscio e impedire che si richiuda sul sapere supposto. Il discorso dell’analista apre al transfert per il sapere. Ma quale sapere? Quello della scienza, dell’università? No. Se così fosse l’analista incarnerebbe il posto del padrone che sa (discorso dell’università, della scienza). Invece l’analista è un significante qualunque, un Sq che ha la funzione di mettere in moto la catena significante, di mettere in movimento il significato inconscio fissato s(S1, S2…Sn). La presenza, la parola, il taglio, il silenzio dell’analista servono per orientare l’analizzante al proprio supposto sapere inconscio.[13] E una volta lì mettere in discussione questo sapere, in quanto il sapere inconscio si impone come cristallizzato, atemporale, ripetitivo. Quel sapere che nell’inconscio è “supposto” può essere dialettizzato, messo in movimento, può essere collocato sulla freccia del tempo in cui il passato non si ripete nel presente e nel futuro.
- Simbolico-Reale. Oggetto a-taglio-godimento (amore per il reale).
L’analista sostiene questo movimento verso il SsS, verso l’inconscio, ma lo mette in questione, lo smentisce. Come lo fa? Proponendo il proprio sapere? Elargendo un’altra verità? No, tenendo il posto di oggetto a, causa del desiderio di saperne di più.[14] L’analista come oggetto a, cioè oggetto niente, vacuolo, atopos, permette di tenere aperta l’interrogazione all’inconscio e allo stesso tempo impedisce di prendere per buono il sapere supposto dell’inconscio, quel sapere che si ripete, quel significato che si incarna nel sintomo. L’analista oggetto smentisce quel sapere fissato, che si ripete, lo smuove, introduce il tempo e svuota quel sapere inconscio cristallizzato: «L’analista è prima di tutto l’involucro del niente di questo significato inconscio» (Miller, Paradigmi, 147).[15] Ecco perché il nome che più rende conto di questa non-posizione dell’analista è quella di resto, di vacuolo, di oggetto niente. L’ultima torsione del transfert è quella che fa virare dalla ricerca del senso e dalla decifrazione dell’inconscio e del fantasma al transfert sul proprio modo di godere. Dal senso al godimento. Ma anche a questo livello il transfert tende alla “ripetizione” e in quanto tale può divenire un ostacolo. Solo la caduta dell’oggetto e del transfert aprirà all’incontro con un altro tipo di amore (amore per il reale). La concezione dell’inconscio, dell’interpretazione e del transfert è segnata, nell’ultimo insegnamento di Lacan, da uno spostamento di accento dal Simbolico al Reale che si traduce in un movimento, una torsione di molti concetti.
L’implicazione per il transfert è evidente: si passa dal transfert che sostiene la lettura, la decifrazione dell’inc., al transfert che sostiene la libido, la cifratura del godimento.
Riassumendo le varie tappe del transfert:
S > D > Sq > Analista (luogo-tenente dell’oggetto perduto, sostituto della figura primaria su cui si sposta l’affetto, visto come Altro che può soddisfare la domanda) > SsS (l’interpretazione, sostenuta dallo spostamento d’affetto, permette di orientare sull’inconscio l’aspettativa di sapere, si tratta di leggere e decifrare il sapere inc. e l’analista fa da assistente) > Transfert simbolico-reale, in cui l’analista non è più l’Altro della domanda ma oggetto a, oggetto niente che favorisce il passaggio dalla decifrazione dell’inc. alla cifratura del godimento, dal sintomo al sinthomo.
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Transfert virtuale
Ciò che l’uomo ha di fronte a sé è sempre e solo l’immagine virtuale (J. Lacan)
L’emergenza del Covid-19 e il lockdown conseguente hanno avuto un impatto ancora oggi, a un anno dalla ripartenza, non percepito nella sua reale portata. Si è parlato molto degli effetti sanitari a medio e lungo termine, non si è parlato molto degli effetti psicologici. Nel campo della psicoterapia cominciamo ad averne la chiara percezione. La gravità del disagio montato in questi due anni ora richiede uno sforzo di applicazione e di riflessione inediti, a cominciare da una prima valutazione della prassi dei colloqui terapeutici online che la situazione ha richiesto. Un confronto tra colleghi su queste esperienze ancora non c’è stato.
Propongo qui qualche spunto di riflessione in vista dell’utilizzo ormai sdoganato delle terapie online. Possiamo parlare di terapia online? È possibile una cura a distanza? Cosa viene meno nell’incontro a distanza?
In particolare, per la psicoanalisi sembra improponibile una sua variante in tal senso. Questa nuova prassi sembra mettere in crisi l’idea della presenza dell’analista nello spazio e nel tempo presente e apre questioni fondamentali. Cosa vuol dire essere qui e ora in seduta? La presenza si riferisce all’occupare lo stesso spazio nello stesso tempo? Cosa fa della presenza corporea dell’analista la condizione imprescindibile dell’analisi? Che effetti ha l’incontro online sul transfert?
Riprendiamo, allora, il filo del transfert. Che tipo di transfert si instaura negli incontri online? Possiamo parlare di transfert immaginario, legato all’immagine, appunto? Non essendo presenti fisicamente, cosa viene meno, in termini transferali? Come si possono articolare i livelli del transfert nell’intreccio tra I-S-R? È necessario portare in campo concetti che sembrano scontati: prima di tutto cosa intendiamo per presenza corporea, il corpo ha diversi statuti, Immaginario, Simbolico, Reale, appunto; quindi cosa intendiamo per rappresentazione, percezione, realtà, virtualità.
Corpo immaginario
Le innovazioni tecnologiche introducono nuove realtà, nuovi intrecci tra materiale e immateriale, tra vicino e lontano, tra concreto e immaginario. La nostra realtà è fatta di materie, di immagini, di pensieri, di percezioni, di concatenazioni significanti… Sebbene nel linguaggio comune siamo abituati ad opporre “virtuale” a “reale”, non è difficile rendersi conto che la virtualità non è da associare ad assenza o a non-reale ma semmai a distanza, dislocazione, vicarietà, rappresentazione. Lacan nello schema ottico (con lo specchio sferico e l’illusione che questo produce) mostra come il soggetto, in ragione della sua collocazione, non può evitare di confondere l’immagine reale e l’immagine virtuale. Esempio che evidenzia come tutto il nostro mondo è costruito sul modello dell’immagine, delle forme: «Ciò che l’uomo ha di fronte a sé è sempre e solo l’immagine virtuale».[16] A Lacan interessa capire come si costituisca la rappresentazione del mondo nei diversi oggetti e nelle diverse modalità della percezione, a partire dal registro immaginario, una struttura inconscia corrispondente al processo primario di Freud. La percezione del proprio corpo, dell’altro e degli oggetti stessi del mondo dipendono da un passaggio fondamentale, appunto lo stadio dello specchio come formatore dell’io. Da qui, l’immaginario darà forma al mondo. Una volta che le forme e le sue significazioni si depositano nell’inconscio si cristallizzano, si eternizzano e tendono a ripetersi nell’uguale, nell’identità che appunto l’immaginario ha fondato a partire dall’immagine del corpo. L’immaginario è la sensorialità, la fenomenologia della percezione che struttura e dà forma al mondo; è la tendenza all’inerzia, al senza tempo, al completamento della buona-forma (Gestalt) e del buon-senso. Nell’immaginario tutto è possibile, completabile, complementare, tutto è significabile. Alla buona forma corrisponde il buon senso, all’unità del corpo l’unità del senso. L’immaginario mal tollera i difetti, le mancanze (-φ), avendo all’orizzonte la totalità sempre possibile e raggiungibile (ricomposizione della sfera, della buona forma).[17]
In effetti l’immagine del corpo fornisce i confini e la forma in cui riconoscersi, dà posto alle sensazioni, alle parti corporee che altrimenti rimarrebbero “pezzi staccati”. L’immagine del proprio corpo serve a localizzare, a catturare, a trattenere il godimento nei confini tracciati dall’immagine, dalla forma del corpo. A partire dalla costituzione dell’immagine di sé come corpo sarà possibile la percezione delle cose del mondo. Si tratta però di un’illusione, di un misconoscimento poiché l’immaginario non dà conto di tutto, c’è qualcosa che non è visibile, non prende una forma, anche il godimento non può essere tutto contenuto dal corpo, nei confini dell’immagine corporea i(a). L’oggetto a è questo resto non visibile, questo resto di godimento fuori-corpo, questa eccedenza fuori Gestalt. È ciò che si colloca oltre il visibile, oltre il rappresentabile, oltre l’immagine, oltre ogni fenomenologia della percezione. Se fino al Sem X Lacan ha concepito l’immagine del corpo come costitutiva della realtà, i(a) come focus della fenomenologia della percezione, a partire dal Sem X sarà l’oggetto a, l’oggetto libidico non visibile, non specularizzabile, ad organizzare il campo visivo e percettivo in genere. L’oggetto a diviene il punto di coagulazione della percezione del proprio corpo e del mondo, intorno ad esso si organizza e prende consistenza la percezione. Punto che annoda S-I-R. Ecco allora che il corpo non può essere pensato solo come immagine, come forma, come sacco di pelle, come deposito di significazioni cristallizzate. È anche un corpo affettato, segmentato dal significante e perturbato dal godimento. Un corpo che si ha e si è. Un corpo visibile e invisibile. Un corpo dentro e fuori i confini dell’immagine. Eppure l’illusione dell’immagine è potente. La tendenza alla buona forma, alla completezza, all’identità vela sia la mancanza che l’eccedenza. Miller ha sottolineato come l’immagine del “proprio” corpo sia decisiva nella specie umana (negli animali è decisiva l’immagine dell’altro, del simile per l’accoppiamento, del diverso in quanto preda/predatore). Negli umani l’immagine del corpo, i(a), indica sia l’immagine del proprio corpo che dell’altro, ma è la preminenza dell’immagine del corpo proprio a caratterizzare l’umano. È come se gli umani fossero attenti, interessati, preoccupati del loro corpo, come se avvertissero una mancanza essenziale che l’immagine verrebbe a velare o a colmare. Una mancanza che Freud aveva pensato come ritardo della maturazione, deficit organico, Hilflosigkeit; Lacan la concepisce come emergenza immaginaria, prodotta dal confronto con l’immagine del corpo dell’altro: la castrazione. Ecco allora che l’importanza di i(a) negli umani trova nella castrazione il suo motivo, ne è il tappo, il velo. Ecco perché – scrive Miller – nello stadio dello specchio non vi è solo giubilo ma anche depressione, a seconda di quanto l’immagine riesca a velare. Il meno (-) primario, la mancanza che l’immagine viene a ricoprire non è il deficit organico dello sviluppo (hilflosigkeit), ma la castrazione (-φ). Quindi, l’importanza dell’immagine del proprio corpo negli umani è dovuta alla castrazione. L’immagine del corpo «traduce sempre la relazione del soggetto con la castrazione» (p. 242). L’incontro con -φ provoca l’amore per la propria immagine.
Quindi l’immaginario, il corpo immaginario, non è semplicemente l’immagine, il vedere, ma l’incontro con la castrazione che si cerca di ricoprire con l’immagine-velo. Ma l’immaginario non è sufficiente a reggere l’incontro con il -φ, è necessario un punto di stabilizzazione, di riferimento per poter “vedere”, assumere e tollerare la castrazione.
È il NdP ad ancorare la bolla immaginaria che rischierebbe di gonfiarsi e volare via oltre le nuvole. Il NdP fa da punto di capitone che dà posto alle immagini: «il supporto fondamentale delle immagini del corpo, degli altri e del proprio, è il NdP, l’azione del NdP, senza il cui supporto non possiamo vedere al proprio posto nessun simile né noi stessi»[18]:
La verifica della consistenza della realtà percettiva che ci consente di conservare il nostro posto nello spazio e percepirne i contorni senza troppe deformazioni, si fonda sul NdP. Quando questo difetta abbiamo la deflagrazione dell’immaginario e i disturbi percettivi della psicosi. Quando la castrazione, con il NdP, non regola il godimento, c’è un sovrainvestimento libidico e una perdita dei confini, dell’immagine contenitrice, involucro. L’immagine del proprio corpo è perturbata, invasa da una libido non castrata. L’immagine del corpo nell’isteria può assumere la funzione di velo, di tappo e spesso l’isterica cerca nell’altra donna tale funzione. Oppure, l’immagine del proprio corpo è usata come messaggio da inviare all’Altro. Il corpo come insegna, biglietto di presentazione, mascherata. Nell’anoressia il corpo stesso può diventare quel -φ. Nella bulimia è l’oggetto orale a fare da tappo alla castrazione. Anche nel caso dell’ossessivo, l’immagine narcisistica è un modo per far fuori il desiderio dell’altro, il soggetto dà all’altro un’immagine a distanza di sé stesso: è l’oblatività ossessiva.
Presenza
L’immagine del corpo online, proprio e dell’altro, cosa lascia fuori? Tutti siamo concordi nel ritenere che la presenza è data dal corpo. Solo la presenza fisica mi permette di fare una reale esperienza dell’altro. La presenza è fatta di voce, di immagine, di contatto, di odori, di suoni. Ma quando diciamo fare esperienza dell’altro, cosa intendiamo? Vi propongo un esperimento mentale: immaginiamo che dopo il telefono che ha permesso di sentire presente una voce lontanissima e dopo le tecniche di fonoregistrazione che ha reso presente la voce che proviene da un tempo passato, dopo le tecniche di riproduzione dell’immagine che ci fanno vedere persino in 3D, immaginiamo un futuro prossimo (già annunciato dalla RV e dal Metaverso) in cui ci saranno sistemi per trasmettere tutti i parametri sensoriali (suoni, immagine, odore, sensazioni tattili, consistenza, peso…) per presentificare e fare esperienza dell’altro; come parleremo allora di esperienza, multisensorialità, interazione in realtime, presenza, corpo?
La collega Ennia Favret[19] ha recentemente segnalato alcuni sistemi di RV che sono già operativi nel campo della medicina e della psicoterapia; ad esempio l’avatar Simsensei è già utilizzato da psichiatri come supporto alla diagnosi del DSM: a partire dall’immagine del paziente ripreso dalla webcam, il sistema Multi Sense valuta, calcola e incrocia i dati delle analisi della voce, dei movimenti fisici, delle espressioni del viso, dello sguardo e in tempo reale sostiene un colloquio con il paziente, alla fine del quale arriva a formulare una diagnosi. Sono in fase di sperimentazione sistemi di interazione in uno spazio virtuale di soggetti che condividono lo spazio e il tempo con la loro riproduzione tridimensionale, ologrammatica, non più un avatar. Non solo l’immagine dei loro corpi è ricreata in questo spazio di interazione virtuale, ma anche altri indici sensoriali saranno “presenti” (il tatto, l’odore…).
Possiamo parlare di presenza? Ci può essere una presenza atopos? In realtà non è solo la fisicità e la multisensorialità del corpo che fa l’esperienza. Il soggetto, analiticamente inteso, non è riducibile alla presenza fenomenologica. Il corpo e la presenza dell’analista sono importanti per situare i diversi livelli del transfert ISR. Ma non per la sua fisicità, multisensorialità. In tal senso non è il corpo nella sua multisensorialità a fare la presenza. Il punto è se la sua presenza riesca o no ad essere significante, cioè ad essere un interrogativo, una X. Se riesca, in tal modo, ad essere causa di desiderio, nella sua doppia accezione: paura e attrazione.
Direi, se sia o meno una presenza enigmatica, “tragica” nel senso di incutere terrore-paura o pietà-desiderio. Una presenza minacciosa, un altro che può farmi del male; una presenza desiderata, un altro che potrei amare, accarezzare, baciare e che forse lui stesso mi ama, mi desidera. Ma perché la presenza fisica favorirebbe tale enigmaticità con gli interrogativi e l’emersione del transfert che questo comporta? In effetti, se la X segna quella presenza allora possiamo parlare di transfert analitico, altrimenti parleremo di un transfert psicologico, depotenziato, privato di ogni effetto sorpresa, privato dell’inedito, del nuovo, del taglio. In una parola, privato della possibilità dell’atto analitico. Ecco allora: ciò che all’inizio favorisce l’instaurarsi del transfert immaginario grazie a quella presenza che abbiamo chiamato tragica (che incute paura e/o desiderio), poi, nella fase del transfert simbolico e reale, diventa presenza dell’analista come oggetto a, come atopos enigmatico che può operare attraverso l’atto analitico.
Nello spazio virtuale l’interazione è protetta, è al sicuro a tal punto che non ci può essere davvero pericolo di seduzione o aggressione. Una interazione a distanza di corpi senza godimento e senza castrazione, che permette di pensarsi completi e pensare l’altro come complemento. Certo, un godimento c’è (le esperienze sessuali “atopiche” online lo testimoniano) ma sempre adagiato sul letto del proprio fantasma. Lo spazio di interazione virtuale ha un grande potere di suggestione proprio per questa ego-sintonia fantasmatica: consente di sprofondare in una esperienza immaginaria che alimenta l’idealizzazione e il godimento scopico in un circuito senza fine.
In un recente lavoro sulla pedagogia[20] mi interrogavo sugli effetti formativi dei dispositivi digitali capaci di polarizzare l’attenzione e il desiderio al punto da rendere opzionale, residuale la presenza fisica dell’altro e quindi il suo sguardo, il suo contatto, l’interazione diretta. La tecnologia consente quella distanza che mette al sicuro dall’imprevedibilità dell’Altro. Ci si sente meno implicati, meno responsabili e quindi liberi di non mettersi in gioco. Quale sarà l’effetto a medio e lungo termine di queste prassi? Forse ne risulterà alterato il rapporto con l’altro, il desiderio dell’altro, addirittura la sessualità. Se, come ci ha insegnato la psicoanalisi, incessantemente desideriamo il desiderio dell’altro, e se questo ci portava a dare importanza allo sguardo, al gesto, alla vicinanza, alla compenetrazione dei corpi… ora che possiamo con un clic far apparire un volto, una presenza, uno sguardo, una voce che sembrano rivolgersi a noi, perché affannarsi per cercarli nel “prossimo”? Uno schermo non ha una sua intenzione (buona o cattiva), non ha desideri, non pone condizioni, “sono io a condurre il gioco!” [21]
Il dominio virtuale e visuale nasconde, cancella, evita il -φ, l’invisibile, l’imprevisto. Evita ciò che resta fuori-immagine e che tocca il corpo come godimento traumatico, che il visuale non può assorbire, contenere, localizzare. Si tratta proprio di quel godimento che genera sintomi e angoscia.
Analista oggetto a
Se l’analista prende funzione di vacuolo, oggetto a, causa di desiderio, è grazie al suo corpo? Direi di sì, ma del suo corpo che è allo stesso tempo immaginario-simbolico-reale: corpo immaginario (anatomico-sensoriale), corpo simbolico (strutturato come un linguaggio), corpo reale (sostanza godente).
Abbiamo visto come per arrivare al transfert simbolico-reale bisogna passare dal transfert immaginario in cui c’è la proiezione sull’immagine dell’analista di figure primordiali. Già in questa sovrapposizione c’è un’operazione significante, una sostituzione metaforica con l’emersione di significati vecchi e nuovi allo stesso tempo. Ogni figura, ogni immagine può avere funzione immaginaria e simbolica. L’immagine di una pietra è un’immagine, ma se quella pietra è messa in un certo modo assume valore di significante. Nel transfert simbolico il corpo dell’analista non è più un’immagine, è un significante, sta lì per un altro corpo, un altro significante. Se riferissimo solo a questo la presenza del corpo, allora diremmo che l’immagine del corpo dell’analista c’è in presenza e c’è a distanza (online); se si tratta di depotenziare l’immagine, il corpo immaginario e dare consistenza al discorso, alla voce, cosa che in presenza è scandita dal passaggio al lettino, ebbene anche online questo passaggio può essere scandito, seppur in modo meno netto, meno ritualizzato. Dare posto alle parole delle libere associazioni, far risuonare il loro versante significante, asemantico, sancire il passaggio dallo sguardo alla voce, ebbene sì, anche a distanza è possibile. Sia in presenza che online si tratta di una rappresentazione (immaginaria e simbolica). E se chiudessimo qui la faccenda del corpo dell’analista, ne faremmo una presenza spettrale!
Infatti, il concetto di rappresentazione ha un doppio statuto che Freud ha ben presente: Vorstellung e Repräsentanz.[22] Lacan utilizza il termine Vorstellungs-Repräsentanz, dove Repräsentanz è il rappresentante e cioè un significante che rappresenta una rappresentazione che presa da sola sarebbe un corpo vuoto; vuoto se non fosse rappresentato da un tratto particolare. Nel Sem VII Lacan sottolinea che Vorstellung risulta essere in Freud «qualcosa di decomposto»,[23] qualcosa che mette sempre in gioco il motivo dell’illusione e della finzione, proprio perché gli affetti subiscono il destino della rimozione per emergere alla coscienza nel travestimento e nello spostamento e proprio perché l’umano parla, e come parla mente. Non può fare diversamente poiché il linguaggio è sempre inadeguato: «La Vorstellung è qualcosa di essenzialmente decomposto. È ciò attorno a cui ruota da sempre la filosofia dell’Occidente, da Aristotele in poi, e la φαντασία [la fantasia, l’immaginario]. La Vorstellung in Freud è presa nel suo carattere radicale, nella forma con cui è stata introdotta in una filosofia essenzialmente impostata come teoria della conoscenza. Ed è qui la cosa notevole – egli le attribuisce fino in fondo quel carattere a cui proprio i filosofi non hanno potuto decidersi a ridurla, di corpo vuoto, di spettro, di pallido incubo della relazione con il mondo, di godimento estenuato che al di là di tutta l’interrogazione del filosofo ne fa il tratto essenziale. E isolandola in questa sua funzione, Freud la strappa alla tradizione».[24] La strappa all’immaginario. Ne fa un elemento associativo, combinatorio, per cui risulta evidente che «il mondo della Vorstellung è già organizzato secondo le possibilità del significante come tale» (p. 76). Quindi, la presenza dell’analista non è riducibile a immagine, a rappresentazione corporea (visuale o multisensoriale che sia). Ma allora cos’è che rende la sua presenza non-spettrale?
Lo storico Carlo Ginsburg, nel saggio “Rappresentazione. La parola, l’idea, la cosa”[25], ci offre preziosi spunti di riflessione: «Nelle scienze umane si parla molto, e da molto tempo, di “rappresentazione”: un successo dovuto senza dubbio all’ambiguità del termine. Da un lato la “rappresentazione” sta per la realtà rappresentata, e quindi evoca l’assenza; dall’altro rende visibile la realtà rappresentata, e quindi suggerisce la presenza» (p. 89). Rappresentazione sta, quindi, sia per assenza che per presenza. Ginzburg, ricostruendo la storia del termine, mostra come ad esempio nell’antica Roma le immagini degli imperatori e dei re defunti, o anche le maschere funerarie degli antenati, indicavano la presenza: «l’imago era considerata equivalente alle ossa perché l’una e le altre erano considerate come una parte rispetto al tutto, il corpo» (p. 96). Ecco lo statuto metonimico della presenza, che vede nel culto delle reliquie la sua massima espressione. Pezzi staccati di corpo che stanno per la presenza reale del santo. Maschere funebri, statuette, sostituti rituali, imago, reliquie, prendono il posto degli assenti e ne continuano l’esistenza terrena. La reliquia, il pezzo di corpo staccato non è una cosa inerme, è un atto, un generatore di credenze-desideri. Ma anche la parola imago nella sua storia si è caricata di ambiguità, soprattutto nella cultura medioevale cristiana, dove predomina una paura delle immagini, una diffidenza e svalutazione. Imago evoca la finzione, l’inganno o quanto meno una realtà parziale, impoverita, astratta. Praesentia, al contrario, evoca una realtà in cui è presente lo spirito e l’eucarestia ne è la massima espressione. Ciò che definisce la presenza non è la mera percezione sensoriale ma, nelle reliquie e nell’eucarestia, il principio che la anima (l’ammontare d’affetto o d’angoscia).
Delle parti, dei tratti (oggetti a) si fanno veicolo di quell’ammontare d’affetto e rendono presente ciò che altrimenti rimarrebbe un “corpo vuoto, uno spettro, un pallido incubo della relazione con il mondo”. Lacan nel Sem XI mostrando in che modo l’occhio può funzionare come oggetto a, vale a dire oggetto della mancanza (- φ), ribadisce che il soggetto per costituirsi si è dovuto separare dall’organo, dalla presenza fisica del corpo materno; si è dovuto separare dal seno per far esistere la madre, dagli occhi per far esistere lo sguardo, dalla bocca per far esistere la voce, ovvero per far esistere gli oggetti a. Ecco perché l’oggetto a vale come simbolo della mancanza in quanto parte elisa che presentifica la libido, instaura il desiderio, costituisce il soggetto dell’inconscio.[26]
Ecco, allora, intuiamo la funzione di oggetto a dell’analista!
Nel Sem X Lacan parla di un pezzo di corpo come causa di desiderio, parla della “libbra di carne” (facendo riferimento al protagonista di Il mercante di Venezia di Shakespeare, che chiede come garanzia per un debito il prelievo una libbra di carne dal corpo del debitore). La libbra di carne dell’analista è una parte del suo corpo, è questa ad essere oggetto causa del desiderio del paziente: «È questo pezzo che circola nel formalismo logico, così come si è costituito con il nostro lavoro dell’uso del significante. È questa parte di noi stessi che è presa nella macchina ed è per sempre irrecuperabile. Oggetto perduto ai livelli diversi livelli dell’esperienza corporea in cui si produce il suo taglio: è esso il supporto, il substrato autentico, di ogni funzione della causa. Questa parte corporea di noi stessi è, essenzialmente e per funzione, parziale. È il caso di ricordare che questa parte è corpo e che noi siamo oggettuali: il che vuol dire che siamo oggetti del desiderio solo in quanto corpi. È un punto essenziale da ricordare, dato che fare appello a qualcos’altro, a un qualche sostituto è uno dei campi creatori della negazione. Il desiderio resta sempre, in ultima istanza, desiderio del corpo, desiderio del corpo dell’Altro, e nient’altro che desiderio del suo corpo».[27]
Oggetti non fisici ma evocativi di un’assenza, di ciò che manca. Ecco perché gli oggetti a (qualsiasi forma prendano: lo sguardo, il tono di voce, un respiro, un gesto) sono sempre vacuolo, niente, non corrispondono a nessuna sostanza, affinché possano essere causa di desiderio di ciò che manca.[28] Ecco allora che la presenza dell’analista è riconducibile a un tratto, a un pezzo di corpo fuori-immagine, a un dettaglio non specularizzabile, non previsto, non cosciente, a una sfumatura, una nuance, uno sguardo, un incedere, alla grana della voce. La sua presenza si manifesta sottraendosi (atopos), nella presentificazione dell’oggetto a, come libbra di carne causa di desiderio. Oggetto a, libbra di carne, vacuolo, presenza che evoca mancanza, pezzi staccati, reliquia, resto. Strana posizione, quella dell’analista! Nell’ultima fase del suo insegnamento, Lacan assimila l’analista al santo. Non certo per le sue virtù morali ma per il suo essere scarto.[29] L’analista è nella posizione del santo non perché animato dal bene, non è lì per fare miracoli né per fare la carità ma semmai la “scartità”: il santo è lo scarto del godimento. Sta lì non per godere della sua posizione, ma per essere causa di desiderio. In questo essere causa, lo scarto è un atto e non uno stato passivo. Essendo scarto del godimento, l’analista può infischiarsene di credersi qualcuno, di prendersi per quello che non è. La sua non è una rinuncia a godere, che sarebbe a sua volta un godimento, il godimento del sacrificio. Si tratta di un desiderio più forte. Qui sta l’etica della psicoanalisi, ovvero il desiderio dell’analista.
Schermo
La realtà dell’interazione online è tutta nello schermo. Nella cornice dello schermo emerge il doppio statuto dell’immagine speculare: l’essere guardato, esposto allo sguardo dell’altro e vedersi guardare (nello schermo oltre a vedere l’immagine dell’altro, vedo anche una finestra con la mia immagine che guarda). Chi guarda è visibile all’altro e a sé stesso. Dentro quella cornice che è lo schermo, c’è uno sguardo supplementare. Nei colloqui on-line lo schermo preesiste al guardare, lo schermo acceso ci mette già nella condizione passiva di essere esposti allo sguardo, anche se di là non c’è nessuno, anche se ancora non si è collegati. In tal senso lo schermo è una versione del grande Altro, dello sguardo onnipresente e onnivedente. La luce, lo schermo come grande Altro. La luce ci permette di vedere e dà visibilità. La luce preesiste ed è condizione al nostro vedere. L’essere guardati, essere alla luce, è anteriore al guardare; la passività, l’essere oggetto dello sguardo è più fondamentale del vedere. Il grande Altro ci guarda, è lì a prescindere dalla nostra presenza. Sguardo che può prendere la tonalità del godimento e virare verso la paranoia o anche verso accenti voyeristici o esibizionistici. Godimento che, in un senso o nell’altro, fa vacillare la percezione, la visione reale (wirklich), e ci lascia in uno stato di smarrimento, estraneità, perplessità, confusione. Miller ha fatto notare che normalmente non sperimentiamo questo sentimento di estraneità poiché l’estrazione dell’oggetto a come sguardo permette di avere una stabilizzazione della realtà percettiva, se questa estrazione non c’è ci si ritrova avviluppati dal godimento visivo, lo sguardo si impone a noi: «Nella paranoia si impone in maniera permanente la presenza dello sguardo dell’Altro».[30]
Lo schermo rischia di accendere la paranoia perché lo sguardo e la voce non localizzati (poiché diffusi nell’etere) sono dappertutto, onnipresenti. La localizzazione è fondamentale. L’interazione in presenza attutisce quello sguardo-voce supplementare, lo localizza. Lacan sottolinea che il campo della realtà riceve il suo quadro solo tramite l’estrazione dell’oggetto a, cosa che in Schreber non avviene. L’oggetto a più di godere perturba la percezione, impedisce la costituzione di una cornice stabile della realtà. L’oggetto a va circoscritto, velato, estratto affinché non invada il campo percettivo. Cosa fa l’analista per favorire tale estrazione? Grazie ai tagli introduce un significante che localizza e riduce il godimento, un S2 capace di spostare il soggetto dall’S1 su cui si è arenato. Miller ribadisce che «la finestra del fantasma è costituita alla sola condizione che l’oggetto a sia estratto. Ed è in questo che il fantasma è un’inquadratura. Ed è anche schermo».[31] Il campo della realtà appare nella cornice dello schermo fantasmatico.
Nella fase dello specchio l’immagine del corpo dà un posto alle proprie sensazioni, localizza, contiene il godimento; per questo è pensabile come cornice, contenitore, sacco, sfera, bolla, involucro, armatura, confine che delimita il dentro/fuori, l’interno/esterno, il proprio/altro, il sé/mondo. L’immagine permette la costituzione della cornice fantasmatica; permette di velare l’oggetto di godimento supplementare. Lo vela ma non lo cancella, in quanto anche se l’oggetto più-di-godere non è immaginarizzabile, non per questo non esiste. Qui l’oggetto a non è il normale oggetto del desiderio, è il più-di-godere, l’eccedenza che non trova posto, forma, delimitazione nel fantasma. Se nella concezione dell’immaginario e della fase dello specchio, l’oggetto a è innanzitutto il bersaglio che promette la soddisfazione del desiderio, oggetto mira che implica l’immagine speculare, i(a); già nel Sem IV Lacan nota che non tutto del corpo è visibile, c’è un al di là dell’immagine, una mancanza che si può solamente pensare dietro un velo, un sipario.[32] Nel Sem X l’immagine del corpo nasconde l’oggetto non specularizzabile, quell’oggetto a più-di-godere, che in questo seminario trova la sua prima formulazione. Si svincola dallo stadio dello specchio e dalla castrazione e diviene l’oggetto privilegiato dell’angoscia, diviene il più-di-godere non contenuto nei confini dell’immagine corporea.
Nell’ultimo insegnamento i tre registri divengono equivalenti, è l’annodamento dei tre che assicura la consistenza del corpo, l’immaginario è importante per estrarre a, per dare posto al godimento e al sintomo. Il sintomo acquisisce una nuova dignità, non si tratta di eliminarlo, ma di inventare come servirsene. Non per leggerlo e interpretarlo, ma per ridurlo e utilizzarlo, farne sinthomo.
NOTE
[1] Lacan J., Il seminario. Libro VIII. Il transfert, Einaudi, Torino, 2008.
[2] Lacan J., Il seminario. Libro XX. Ancora, Einaudi, Torino, 2011, p. 23.
[3] Lacan J., Sem VIII, op. cit., p.103.
[4] Si fa riferimento alle commedie che ci sono giunte frammentarie: Ecclesiazuse e Pluto.
[5] Canfora L., La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone, Laterza, Bari, 2014.
[6] Freud S., (1918) “Vie della terapia psicoanalitica”, Opere, Vol, IX, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, p. 24.
[7] È un movimento progressivo poiché è bene che il transfert immaginario si sia assestato prima di cominciare ad interpretare, è controindicato interpretare prima che ci sia il transfert. E comunque si interpreta tenendo conto della posizione che si occupa nel transfert in quella fase della cura.
[8] J. Lacan, Sem VIII, op. cit., p. 90.
[9] Ivi, p. 117.
[10] Miller J.-A., I paradigmi del godimento, Astrolabio, Roma, 2001.
[11] J. Lacan, Sem VIII, p. 13.
[12] «La seduta analitica è un lasso di tempo del tutto speciale in cui il soggetto è condotto a fare l’esperienza pura della inversione temporale che determina la significazione dell’inconscio» (Miller J.-A., “Introduzione all’erotica del tempo” in La Psicoanalisi n. 37, 2005 , p. 33).
[13] Nella Proposta del 9 ottobre, Lacan assimila il SsS, cioè il transfert, a un algoritmo che prescrive la legge di una sequenza.
[14] L’analisi non deve essere condotta all’identificazione con l’analista (I), c’è un al di là rispetto a questa identificazione, l’oggetto piccolo a (Sem XI, p. 266).
[15] Nel transfert, l’analista deve regolare la sua posizione in modo da mantenere la distanza tra il punto da dove il soggetto si vede amabile e quell’altro punto in cui il soggetto si ritrova causato come mancanza da a. L’analisi non deve essere condotta all’identificazione con l’analista (I), c’è un al di là rispetto a questa identificazione, l’oggetto piccolo a. (Sem XI, 266).
[16] Lacan J., Seminario X. L’angoscia, Einaudi, Torino, 2007, p. 46.
[17] Negli stessi anni in cui Lacan elabora lo stadio dello specchio e la concezione del registro Immaginario, in Germania alcuni psicologi elaborano la teoria della Gestalt che da conto della tendenza psicologico-percettiva alla buona forma, a percepire chiuso ciò che rimane aperto, continuo ciò che è discontinuo, unitario ciò che è frammentario.
[18] Miller J.-A., “L’immagine del corpo in psicoanalisi”, in Introduzione alla clinica lacaniana, Astrolabio, Roma, 2012, p. 241.
[19] Favret E., “Immagine virtuale”, in Il corpo parlante. Sull’inconscio nel secolo XXI, Alpes, Roma, 2016.
[20] Cavallo M., I semi della pedagogia nera, Interventi Educativi, Anno IX, n. 1, 2022.
[21] Inoltre, nella terapia online non è il paziente a recarsi allo studio dell’analista, ma quest’ultimo ad “entrare” nel suo spazio (casa, lavoro). Non recandosi allo studio, non dovendo uscire di casa e fare il tragittto, non ha la percezione del proprio desiderio, tutto è “comodo”, la terapia rimane nella comfort zone. Nessuna fatica, nessun lavoro.
[22] Con rappresentazione siamo vicini al valore immaginario, si tratta della manifestazione, della raffigurazione. Per Freud l’ammontare d’affetto, l’angoscia, si serve di una rappresentazione per manifestarsi, per spostarsi, per questo c’è distinzione tra affetto e rappresentazione. La rappresentazione della cosa equivale alla soddisfazione allucinatoria dell’oggetto perduto. La rappresentazione della parola è l’immagine verbale grazie alla quale l’immagine mnestica acquista valore. Ma il privilegio della rappresentazione della parola non è riducibile a una supremazia dell’udito sulla vista. Rappresentante ideativo e rappresentante della pulsione sono la rappresentazione in cui si fissa la pulsione nella storia del soggetto.
[23] La Vorstellung riguarda il soggetto dell’enunciato in quanto distinto dal soggetto dell’enunciazione, proprio perché la pulsione non perviene a rappresentazione.
[24] Lacan J., Il Seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi 1959-1960 (1986), Einaudi, Torino 1994, pp. 75-76.
[25] Ginzburg C., Occhiacci di legno, Quodlibet, Macerata, 2019.
[26] Lacan J., Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 2003, p. 103.
[27] Lacan J., Il Seminario. Libro X. L’angoscia. 1962-1963, Torino, Einaudi, 2007, p. 233.
[28] L’oggetto del transfert è topologico, come sottolineato sopra. Come ha notato Marco Focchi: «l’oggetto a non è altro che un vuoto, e non corrisponde a nessuna sostanza. Per questo Lacan lo coglie attraverso la topologia. l’oggetto anale non è la solidità dell’escremento, l’oggetto orale non è il caldo latte che sprizza dal seno. Gli oggetti a sono solo la traccia del vuoto lasciato all’origine dalla loro sparizione. L’oggetto perduto non è un oggetto che prima c’era e poi è svanito. L’oggetto a è un vuoto che forma il risucchio del desiderio, e questo vuoto è rivestito di parvenze che fanno da esca. Nella prefazione all’edizione inglese del Seminario XI Lacan lo scrive in una formula che mi pare molto chiara in questo senso: “La sola idea concepibile dell’oggetto è quella della causa di desiderio, ovvero di ciò che manca” (Autres écrits, p. 573). In altri termini: la causa di desiderio non è riconducibile a una causa fisica in qualunque forma, ma a un’assenza” Focchi M., “Ritorno sulla presenza dell’analista» (2020, https://www.marcofocchi.com/il-buon-uso-dellinconscio/ritorno-sulla-presenza-dellanalista).
[29] J. Lacan, Televisione, in Altri Scritti, Einaudi, Torino, 2013, p. 515.
[30] Miller J.- A., “L’immagine del corpo in psicoanalisi”, p. 248.
[31] Miller J.- A., Il mito individuale del nevrotico, p. 92.
[32] Lacan J., Seminario. Libro IV. La relazione oggettuale, Einaudi, Torino, 2007, p. 153.