Confrontarsi con le altre culture, lontane nel tempo e nello spazio, ma anche con l’altro interno a sé stessi, non meno lontano, non meno inquietante, non meno misterioso, affascinante.
L’Altro che ci permette di scoprire lo stupore e il vuoto.
Recensione a cura di Sara Perri
Sabato 3 ottobre 2015, nella suggestiva cornice del Teatro sociale di Amelia, si è svolta la giornata di studi dedicata a Gioia Ottaviani, originale e profonda studiosa scomparsa l’anno scorso, che ha dato un contributo fondamentale alla comprensione dei teatri orientali e alle nozioni che da quel lontano universo hanno contaminato il teatro e il pensiero del ‘900 europeo.
A presentare la giornata Ferruccio Marotti, professore emerito dell’Università Sapienza di Roma, tra i principali animatori degli studi teatrali del secondo ‘900. Con interventi di Peter Stein, Vito Di Bernardi, Roberto Ciancarelli, Fausto Paravidino e Michele Cavallo, ideatore della giornata.
Marotti, mentore della Ottaviani e degli studiosi che nei primi anni ’70 aprivano la strada alla conoscenza delle culture e dei teatri orientali, ha rievocato quegli anni pionieristici, in cui si sono dedicati ad una straordinaria stagione di conoscenze, di incontri, di utopie, di svolte per tutto il mondo del teatro, italiano e internazionale. Marotti ha sottolineato come il confronto con questa alterità radicale ha consentito di riflettere sulla nostra stessa identità, sui nostri valori, sui nostri preconcetti ed è stato appunto questo il fulcro attorno al quale ha ruotato l’intera giornata, come suggeriva il sottotitolo della stessa: un percorso nelle diverse alterità con cui il teatro si è da sempre confrontato, tra eccedenza e sottrazione, tra meraviglia e stilizzazione, tra l’altro lontano e l’altro intimo. Dunque, la conoscenza del Kathakaly in India e del teatro Nô in Giappone, portava nei primi anni ’70 a interrogativi primari sull’idea di arte, sulla funzione del teatro, sui codici espressivi. Marotti ha ricordato commosso i primi viaggi insieme alla Ottaviani, le prime esperienze di documentazione, il rigore e la sensibilità della studiosa, attraverso un aneddoto che rievocava il primo viaggio in India in cui durante la registrazione di uno spettacolo alla vista del personaggio – una strega che alla vista del bambino che dovrebbe uccidere, si commuove e lo risparmia – Gioia al ricordo di suo figlio nato da poco e lasciato per qualche mese, si lascia andare a un pianto a dirotto solo alla fine della registrazione.
L’intervento di Vito Di Bernardi ha dato modo di “vedere” quanto evocato da Marotti, attraverso un video girato in quegli anni in India, che mostrava il training di attori del teatro-danza tradizionale Kathakaly. Partendo da un saggio della Ottaviani sul testo di riferimento di questa tradizione, il Natyasastra, Di Bernardi ha raccontato e mostrato la pratica dell’impersonazione e dell’espressione di stati d’animo, di emozioni, di sensazioni, dettagliatamente descritte e codificate nel testo di oltre 2000 anni fa. Nel video è stato possibile vedere il lavoro di alcune attrici del teatro Kathakaly, in cui era evidente la meticolosa e precisa costruzione delle espressioni di ogni singolo stato emotivo, come la sorpresa, la paura, il sospetto, etc. Questa antica forma di teatro sembra testimoniare quelle che sono le radici più pure dell’espressione umana, ma, allo stesso tempo, la teoria e la pratica di questa tradizione, dimostrano una millenaria costruzione quasi innaturale, il frutto di un artificio che, nei secoli, ha costituito un sapere e una prassi sull’espressività dell’attore ed anche, in qualche modo, sull’esperienza degli stati d’animo. La stessa Ottaviani scrive: “Il modo in cui l’emozione viene resa percepibile attraverso i significanti, propriamente scenici, concorrono a trasformarla in un sentimento condiviso sia nella esperienza estetica di quello stesso sentimento. Non è la interiorità emotiva dell’esecutore a dare forma al corpo e al movimento in scena; è piuttosto la parte oggettiva e visibile delle emozioni a guidare il performer stesso alla loro rappresentazione”.
Roberto Ciancarelli ha riportato il discorso sulle implicazioni di tali ricerche per il teatro europeo del ‘900. Riprendendo l’ultima fase degli studi della Ottaviani, ha messo l’accento sul valore della nozione di vuoto, non come assenza di fenomeni, ma come transizione, intervallo, pausa tra… L’esempio citato da Ciancarelli per spiegare questa sospensione, questa pausa, è stato quello di un famoso esercizio di Stanislavskij, in cui si immagina una goccia di mercurio che scorre lungo il corpo in posizione supina, fino a che non si ferma: ecco, non è tanto il percorso della goccia ad essere interessante, quanto il momento in cui la goccia si ferma, perché quello è il momento di discontinuità, il momento di pausa in cui si può avvertire il vuoto; rappresenta un salto di energia in cui c’è la possibilità di capire che è in atto una trasformazione. Una trasformazione che può avere luogo, appunto, solo in quel momento di vuoto, poiché in esso trova lo spazio per avvenire. Anche il concetto di impersonalità, di superamento dell’espressione personale, di superamento dell’io, dell’identità, del narcisismo, è stato ripreso come passaggio fondamentale che abbiamo appreso dall’oriente. Passaggio che indica una comunione tra estetica ed etica.
Michele Cavallo ha chiuso la mattinata ricordando come il titolo scelto fosse un omaggio alla persona e alla studiosa. Ha precisato che stupore e vuoto non sono in opposizione: non c’è da una parte la meraviglia, l’estasi, la ricchezza di stimoli che ci sorprendono e ci trasportano in esperienze extra-ordinarie; e dall’altra il vuoto, la sottrazione di stimoli, il silenzio. Ha riportato passi di saggi della Ottaviani, ricordando, ad esempio, come già ne L’attore e lo sciamano l’autrice poneva in rilievo la funzione dello stupore: “Nella Cina antica i Cento giochi erano un genere di spettacolo che, con lo straordinario e il mirabolante davano forma alle cose extra-straordinarie, agli spiriti, a tutto ciò che si presentava come Altro, eccezionale e come superamento del quotidiano. L’attore si fa acrobata, illusionista, mago, sciamano, si pone al di fuori del logos e della norma e crea un luogo altro da cui guardare, comprendere e trasformare la vita quotidiana”. Questa tensione tra extraquotidiano e quotidiano, tra meraviglia e sottrazione, tra vuoto e forma ha animato fin dall’inizio il lavoro della studiosa; ma il vuoto nell’estetica orientale – e in particolare in quella giapponese – non è il nulla, l’assenza di ogni fenomeno o la negazione dell’esistenza. C’è un ideogramma che dà conto di un’ulteriore sfumatura di questo vuoto: Ma, è la sospensione, la pausa, l’intervallo tra le cose; esso è anche lo spazio vuoto in cui può prendere posto il desiderio di… e rivolgersi alle cose, diventare slancio, per uscire dall’automatismo, dalla ripetizione. Nella vita come nel teatro questo spazio è costitutivo dell’esperienza di rinnovamento: il vuoto è la precondizione per lo stupore. Fare posto, affinché l’inaspettato possa giungere. Cavallo ha sottolineato come da sempre il teatro abbia cercato un luogo altro da cui poter guardare, da cui poter toccare la vita, l’esperienza umana, toccare il reale che vi è in gioco: a volte attraverso la pausa, lo spazio vuoto, la sottrazione, il silenzio; altre volte attraverso la meraviglia, la festa, l’eccedenza, le forti emozioni e i grandi effetti. Di questo si tratta nel testo Introduzione al teatro giapponese, dove la Ottaviani scrive: “I testi di Zeami sul teatro Nô, mettono l’accento su una visione etica dell’arte, che si estende oltre la pratica per considerare il lavoro dell’attore in quanto via (in giapponese: do), vale a dire in quanto cammino di disciplina che investe il corpo e lo spirito, richiede dedizione, pratica costante e umiltà nel cercare il proprio perfezionamento. La via è la condizione per superare l’uso egoistico dell’arte. Si può dire che lo scopo dell’arte del Nô sia quello di servire come mezzo per pacificare il cuore e poter incontrare l’altro [l’altro esterno, il simile, ma anche l’altro interno, l’intima estraneità che ognuno ha in sé]”. Tuttavia il teatro non è una filosofia, non è una religione. È una pratica. Il teatro orientale – e in particolare il teatro di Zeami – ci indica chiaramente questa dimensione pratica. La Ottaviani ci ricorda che le nozioni buddhiste di vuoto, di non-azione, di impermanenza sono, nella via del teatro Nô, una disciplina che va dal semplice movimento, gesto, postura, alla più sottile percezione della sospensione. Aver messo a fuoco i modi in cui si incarnano nella prassi teatrale quotidiana i principi religiosi e filosofici, è un contributo fondamentale di questi studi: “C’è un movimento visibile fatto di dettagli fisici-motori e da controllo, ma c’è anche un movimento oltre la forma, oltre ogni distinzione, invisibile, animato dal principio della non-azione che scaturisce dal cuore libero dalle passioni e intensamente consapevole della transitorietà delle cose del mondo. Questo conduce a un non attaccamento a se stessi. Conduce a una continua tensione verso l’esperienza ideale del Meraviglioso”. Nel concludere la mattinata, Cavallo ha messo in evidenza come, nei testi della Ottaviani sul teatro Nô, la pratica artistica è considerata una via di conoscenza e di auto-trasformazione. Anche se non si tratta della formazione di un monaco, in Zeami lo scopo rimane quello di formare un attore nel cui cammino pedagogico siano implicati tutti i gradi dello sviluppo umano e artistico. Ecco allora che il grado più alto della scala è quello che corrisponde al fiore meraviglioso, vale a dire a un evento, a una condizione che porta attore e spettatore a sentire direttamente il mistero, il vuoto da cui scaturiscono le forme, da cui scaturiscono i fenomeni che agitano le nostre vite. Un’esperienza in cui le parole giungono alla fine, si estingue l’attività turbinosa della mente, il cuore si pacifica.
Dopo la pausa pranzo, la sessione conclusiva è stata incentrata sul dialogo tra Peter Stein (il grande maestro tedesco della regia del teatro europeo del secondo ‘900) e Fausto Paravidino (autore e regista giovane e molto apprezzato a livello internazionale). Se durante la mattinata, quindi, si è toccata la fascinazione dei teatri orientali, della tradizione, della iper-codificazione del linguaggio dell’attore; nel pomeriggio lo spazio è stato tutto per il teatro occidentale, per il lavoro sul testo e sulla regia. Il dialogo si è aperto con una domanda generale sulla funzione del teatro oggi, al di là dei riferimenti alla tradizione e alle esperienze antropologiche. Per Stein il teatro è “fare comunità” e scavo della lingua di una specifica cultura, partendo da questo presupposto ha espresso la sua perplessità sugli studi orientali e sugli studi teatralogici in genere, sullo studio dell’alterità, sulla possibilità di fare “scienza del teatro”. Tale perplessità ha trovato d’accordo anche Paravidino, che ha sottolineato come nel suo lavoro non si preoccupi della pedagogia dell’attore o della “ricerca” delle fonti del teatro, ma semplicemente del testo, dei dialoghi, della messinscena. Il moderatore ha ricordato che il teatro è un campo fatto da tante professionalità e da tanti approcci: l’attore, il regista, lo spettatore, il critico, lo studioso; proprio come per un campo di mele c’è chi le coltiva, chi le mangia, chi ne analizza le componenti, chi, come Cezanne, le dipinge, chi compra e vende quei quadri, chi ammira le mele dipinte, chi le racconta, e così via. Il teatro, quindi, è un oggetto fruibile a tanti livelli e ci sono tanti modi di farlo. Stein ha colto la provocazione per ribadire ed evidenziare la differenza irrinunciabile tra il teatro con la T maiuscola e il teatro filodrammatico, amatoriale, con la t minuscola. Secondo il famoso regista, il grande Teatro d’arte sarebbe quello europeo, quello dei grandi testi e della grande regia. A questo punto il moderatore, riportando l’attenzione sulla questione della “funzione del teatro”, ha ricordato come ci siano diversi modi di fare comunità e di lavorare sulla lingua attraverso di esso: anche il teatro con la t minuscola fa la stessa cosa, seppur in un altro modo e attraverso diversi processi. A tale proposito, sono stati evocati gli ultimi scritti della Ottaviani dedicati alla drammaterapia e al sentire performativo nella più ampia accezione, alla teatralità diffusa. Tale prospettiva non è ovviamente quella della grande regia, del teatro con la T maiuscola, tuttavia le esperienze di teatro nei diversi contesti sociali hanno dato esempi interessanti, che parlano chiaro: il teatro con non-attori, malati psichiatrici o detenuti, come ad esempio gli spettacoli di Armando Punzo, hanno un fascino artistico non trascurabile. Maddalena Crippa è intervenuta con fervore per fare una netta distinzione tra teatro d’arte e teatro sociale o terapeutico, tra professionisti e non professionisti, difendendo l’identità della sua categoria. Marotti, in risposta a quanto detto da Stein, è intervenuto per ribadire che il fare comunità, il professionismo, sono caratteristiche dei teatri orientali e tradizionali in genere. Il moderatore ha sottolineato che il teatro sociale, non è semplicemente un quasi-teatro, un teatro amatoriale, ma una prassi teatrale che coniuga saperi e metodi del teatro d’arte, della pedagogia, della psicoanalisi; saperi sottesi anche al professionismo se si interessa alle “questioni umane”, alle profondità dell’animo umano, alle complesse dinamiche delle relazioni. A questo proposito ha chiesto a Paravidino di raccontare del suo spettacolo Diario di Maria Pia, che parla della morte e della ricerca di senso in una condizione limite. Lo spettacolo nasce dalla rielaborazione della perdita della madre del drammaturgo che, nei giorni precedenti alla sua scomparsa, ha scritto insieme al figlio un diario di ciò che stava vivendo, ha descritto quella che viene definita “fatigue” e della quale poco si conosce. Il testo era destinato proprio a questo: ad una maggiore conoscenza medica di tale stato, ma non essendo stato pubblicato, Paradivino ha deciso di riportare al pubblico questo sapere attraverso ciò che sa fare meglio: il teatro. La piece comincia con una scena shakespeariana, la festa del teatro per eccellenza, continua con dei virtuosismi, cambi di stile, passaggi di luogo, due attori che fanno una pletora infinita di personaggi, poi mano a mano che la protagonista perde le sue facoltà, tutto diventa più semplice, fino ad arrivare a qualcosa di molto vicino al vuoto, ma che invece è pieno di qualcosa. Vediamo qui una vera e propria sfida alla recitazione: trovare la pienezza senza trucchi è un esercizio teatrale difficile, è una grossa scommessa. È il senso della cosa. Lo stesso senso che il teatro trova nei luoghi del disagio. In maniera consapevole.
In conclusione, se da una parte è comprensibile la difesa di una identità d’arte che non si vuole perdere, per contro, affinché il teatro non muoia nella sua rigidità, sicuro dei suoi presupposti stilistici e culturali, si mostra necessaria l’apertura all’alterità, ai luoghi instabili e decentrati. Forse anche così il teatro ritrova una sua funzione fondamentale: luogo da cui potersi guardare, modo per produrre uno spostamento continuo, dispositivo che genera differenze. È il motivo per cui il Teatro si rinnova continuamente. In fondo Stein fa proprio questo: lui stesso ha specificato più volte come il suo lavoro si basi sulla rielaborazione delle opere classiche in grado di produrre uno spostamento del punto di vista. Se sceglie di mettere in scena il Faust è perché il testo fa emergere l’impossibilità di trovarsi in sintonia col nostro tempo, fa risuonare la tendenza a volere sempre di più, a mangiare oggi il pane di domani, in una accelerazione che non ci fa avere mai un’esperienza reale del mondo in cui viviamo. Insoddisfatto del presente e proiettato solo nel futuro, Faust non può mai essere un uomo realizzato. Il testo è capace di farci spostare e guardare con occhi diversi la nostra vita. Scegliendo un testo, lavorando su un focus tematico, ri-creando l’intenzione e la tensione dell’autore, Stein restituisce al teatro una sua antica funzione, affinché – come sosteneva Grotowski – il Teatro d’Arte non si riduca ad un mero intrattenimento, ma si configuri come sentiero verso la comprensione e l’apertura di nuovi punti di vista.
Ha chiuso l’incontro una toccante lettura di Maddalena Crippa di un testo scritto da Gioia Ottaviani, ispirato al testo classico della letteratura giapponese: Storia di Genji.