«Forse la mia vocazione vera era quella d’autore d’apocrifi, nei vari significati del termine:
- perché scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto;
- perché la verità che può uscire dalla mia penna è come una scheggia saltata via da un grande macigno per un urto violento e proiettata lontano;
- perché non c’è certezza fuori dalla falsificazione».
La prefazione di Lacan ai suoi Scritti?
Potrebbe esserlo.
In fondo, potremmo leggere con più agio la scrittura di Lacan se la ritenessimo apocrifa.
«Apocrifo (dal greco apókryphos, nascosto, segreto): 1) detto in origine dei “libri segreti” delle sette religiose; in seguito detto di testi non riconosciuti come canonici nelle religioni che hanno stabilito un canone delle scritture rivelate; 2) detto di testo falsamente attribuito a un’epoca o a un autore» (p. 802).
In effetti chi è l’autore degli Scritti? La scrittura in quanto tale trascina verso l’impersonalità: si scrive.
«Ho letto in un libro che l’oggettività del pensiero si può esprimere usando il verbo pensare alla terza persona impersonale: dire non “io penso”, ma “pensa”, come si dice “piove”. (…) Potrò mai dire: “oggi scrive” così come “oggi piove”, “oggi fa vento”? Solo quando mi verrà naturale di usare il verbo scrivere all’impersonale potrò sperare che attraverso di me si esprima qualcosa di meno limitato che l’individualità di un singolo» (p. 784).
Ecco perché “scritti”. Da chi?
Il potere della scrittura è fondato su qualcosa che va al di là dell’individuo, al di là dell’autore.
Nel 1969, intervenendo al termine della conferenza di Michel Foucault “Che cos’è un autore?” al College de France, Lacan notava che non si tratta di negare l’autore, poiché in quanto soggetto è presente ma in una posizione di dipendenza. Il soggetto è dipendente dal “significante”: ça pense, ça parle, ça écrit.
Brani citati da:
Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, in Opere vol. II, Meridiani Mondadori, Milano, 1994.