Un “nuovo” Master in Teatro e Arti Sociali – Formazione di conduttori
Le arti per fare comunità, per creare relazioni, per favorire lo scambio e l’attivazione di esperienze condivise.
L’arte per rifare la vita, diceva Artaud. L’arte per intercettare e accogliere le diverse forme di vita, al di là delle categorie sanitarie o giuridiche. L’arte per accogliere il disagio, la deviazione, la solitudine di ognuno. L’arte che va incontro alle persone nelle loro vite concrete, nei luoghi concreti.
Se il linguaggio è la casa dell’uomo, il lavoro con i linguaggi è il modo per incontrare la complessità della natura umana. Giocare con i linguaggi è giocare con le dimensioni dell’esperienza: montare, combinare, inventare, ripetere, sostituire, trasformare segni, forme, suoni, movimenti. Il fare artistico emula la fabbricazione degli umani. La metamorfosi delle forme e dei linguaggi artistici è un analogo della continua trasformazione della vita, dell’identità, delle relazioni, del senso che diamo alle cose. Questa analogia tra la struttura dell’esperienza e il fare artistico poggia soprattutto sulla processualità che viene messa in atto. L’attenzione e la dedizione al processo fa sì che l’artista trovi il senso nel fare stesso, nel suo saper-fare, nella ricerca di nuove soluzioni, di nuove forme. In questo stesso fare si può percepire la bellezza del processo, prima ancora del prodotto. L’idea stessa di “artista” si trasforma. A partire dal luogo, dalla vita di relazione, dalle risorse del proprio ambiente, ognuno può costruire e arricchire la sua esperienza creativa. Chiunque può dedicarsi a una trasmutazione di forme capace di dare senso e soddisfazione alla sua stessa vita.
In alcune esperienze teatrali del ’900 si è assistito a un vero e proprio cambio di paradigma: dall’estetica dello spettacolo all’estetica del processo. La vita si converte nel fare-artistico, non la produzione dell’opera è importante ma il processo. La qualità dell’esperienza dipende dal come si lavora, dal perché si è spinti al fare-artistico, dal cosa si riesce a mettere in comune. La dedizione al processo nel quotidiano lavoro artigianale salva dal narcisismo e mette l’artista di fronte alla propria alterità, non a se stesso riflesso negli occhi ammirati degli altri. L’artista che si fissa immobile, innamorato della propria immagine, gioca col suo narcisismo. Gioco mortale in cui non ricrea sé stesso, ma si ripete, in una pura autoreferenza. Quando il teatro e l’arte in genere si chiude su se stessa, diventa poco interessante per gli altri, poco vitale per se stessi. Non accende desideri, non crea nuove opportunità di relazioni, non suggerisce alcun futuro.
L’artista che ci piace è colui che sa ascoltare le cose, i luoghi, le persone. Sa inventare modi per accendere una luce nella penombra, dirigerla su un lato nascosto, dimenticato, trascurato. Sa tenere insieme quando tutto sembra disfarsi. Sa creare nuovi legami dove non si vedono connessioni. Sa mettersi al servizio dell’altro, della sua parola, del sua corporeità, della sua creatività. Sa aiutarlo a trovare strade. Sa tollerare l’incertezza, la non-definizione, essendo animato dalla passione di saperne sempre di più. Si interroga e cerca soluzioni. Sa individuare i punti cruciali su cui far leva, i nodi che interrogano e alimentano il cammino. Sa vedere ciò che gli sta intorno, utilizzare le cose vicine per alzare lo sguardo e incamminarsi verso orizzonti lontani. Mettere a fuoco ciò che gli è prossimo e guardare negli occhi l’alterità che spesso sembra invece così distante.
È questo l’artista che ci piace e che vogliamo contribuire a far crescere.
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