COSA FA DA LIMITE, DA PUNTO DI ARRESTO NEL PENSIERO E NEL LINGUAGGIO.
Un contributo alla comprensione della psicosi a partire dal testo Atalia di Racine. Come può accadere che nelle parole il senso fugga da ogni parte? Cosa permette di tenere insieme, di cucire tra di loro i significati delle parole? Cosa permette di dare senso ai nostri discorsi?
Pubblicato in La Psicoanalisi n. 45, 2009.
Se non deliriamo proprio del tutto, nei nostri discorsi, è perché abbiamo dei punti di riferimento comuni che ci rassicurano sul senso comune.
Le parole, per quanto ambigue stanno insieme e formano discorsi che a loro volta sembrano perfettamente congrui e comprensibili. Eppure, non dovremmo finire di sorprenderci del fatto che dialogando ci intendiamo e che intendiamo noi stessi nei momenti di monologo in cui siamo soli a decifrare il nostro stesso parlare. Capita, infatti, che a volte le parole non si lasciano intendere, il loro significato e i loro supporti materiali, i significanti, scorrono l’uno sull’altro in maniera indipendente, senza connessioni, senza freni.
Nel Seminario III. Le psicosi, Lacan cerca una risposta a una questione fondamentale: “come può accadere, nell’esperienza psicotica, che il significante e il significato si presentino in forma completamente divisa”.[1] Evidentemente è proprio tale separazione a caratterizzare la struttura psicotica; bisogna infatti che ci sia un “numero minimo di punti di attacco fondamentali tra il significante e il significato, necessari perché un essere umano sia detto normale, e che, quando non sono stabiliti o cedono, fanno lo psicotico” È qualcosa di elementare, di troppo semplice evidentemente, ma è un punto di partenza. E di fatti Lacan parte proprio dall’indagare la natura del rapporto significante/significato e le forme del loro possibile annodamento; giuntura che normalmente si realizza visto che non siamo tutti del tutto psicotici! Se invece lo siamo, come lo era il presidente Schreber, può accadere che Significante e significato procedano su due piani che di rado si toccano:
- su un piano la successione, il ritmo, la scansione che gioca sulle proprietà morfologiche e fonetiche del significante, che trascina il soggetto in una cascata di rimaneggiamenti e combinazioni che arriva fino alla creazione di una lingua inventata;[2]
- su un altro piano abbiamo le significazioni (significati e senso) che continuamente slittano e alimentano nel soggetto il nucleo delirante[3], quello che J.-A. Miller ha denominato “la fuga del senso”.
Ma cosa fa sì che normalmente tale fuga sia arginata e che non ci troviamo perennemente presi in un delirio generalizzato? In una “semiosi illimitata” in cui ogni segno rinvia a un altro segno all’infinito?[4] Lacan riparte da Saussure, il quale concepisce l’insieme dei contenuti mentali (significazioni elementari, sentimento, affettività, immagini, pensieri, desideri…) come flusso, magma continuo, massa amorfa, ombre, risonanze, brusìo di fondo; al di sotto del quale scorre il piano del significante (i suoni, la materia fonica, l’espressione), anch’esso flusso continuo che grazie alle regole della lingua riesce a strutturare, segmentare, polarizzare, dare l’involucro a quel flusso di significazioni, rendendole percepibili e comunicabili. La lingua sarebbe l’intermediario tra pensiero e suono: tramite segmentazioni, delimitazioni, differenze, articolazioni, la lingua crea delle unità o elementi che mettono in relazione le due masse amorfe di pensiero e suoni.[5] I due piani sono concepiti come due flussi, la segmentazione permetterebbe la selezione e l’associazione arbitraria di un significato a un significante. Per Lacan, come per Saussure, non c’è significante a priori o assoluto che corrisponde a un significato, quindi non può esistere un sistema linguistico che produce da sé il valore unificante grazie a degli elementi che si corrispondono. Cioè, la lingua produce elementi, ma cosa fa sì che questi elementi associno un determinato significante a un determinato significato?
La corrispondenza non è data, è sempre arbitraria e va rintracciata: “l’arbitrarietà del segno ci fa capire meglio perché soltanto il fatto sociale può creare un sistema linguistico. La collettività è necessaria per stabilire dei valori la cui unica ragione d’essere è nell’uso e nel consenso generale; l’individuo da solo è incapace di fissarne alcuno”.[6] Lacan accentua l’arbitrarietà della corrispondenza tra significante e significato, ne problematizza il processo di creazione sociale e soggettivo, sovverte l’ordine mettendo il Significante (in maiuscolo) sopra e marcando la divisione con una barra: S/s. A maggior ragione, in tale riformulazione il rapporto tra S/s appare debole, arbitrario, sempre pronto a disfarsi, o comunque per nulla stabile sia nella evoluzione diacronica di una lingua sia nel sistema simbolico di un individuo. Lacan con la barra tra S/s vuole sottolineare tale instabilità e divisione. Mettendo il S sopra dà rilevanza all’ordine significante che si articola come una catena di rinvio continuo S→S→S→S dove i significati sono effetto della catena che di volta in volta si produce. Ecco allora che in Lacan il termine Significante assume un valore diverso da quello attribuitogli da Saussure: non semplice supporto materiale, fonico del significato, ma l’insieme delle caratteristiche di una parola scritta o parlata che possono essere colte solo nella combinazione di due o più elementi che formano una unità in una catena (ciò che nella linguistica post-saussuriana è stato precisato come “sintagma”). Ed è proprio l’articolazione del significante in una catena che rende possibile cogliere le sue specifiche qualità contestuali e permette l’attribuzione di un significato. In effetti sia quando leggiamo sia quando ascoltiamo, i Significanti si presentano in una successione articolata, per cogliere il senso dobbiamo arrivare alla fine di una unità della catena e a posteriori far emergere le proprietà significanti dei singoli elementi: il S non è isolabile. All’interno di una singola frase ognuno degli elementi ha un significato, ma per capire il senso della frase dobbiamo arrivare alla fine, in tal modo anche i singoli significanti riassumeranno senso. Ad esempio, se prendiamo la parola Sì… sono in grado di capire il suo significato affermativo; ma ho bisogno degli altri significanti che seguono per capire il contesto e dare un senso a questa affermazione. E così, a ogni momento dello svolgimento della frase fa seguito un senso: Sì, io…; Sì, io vengo nel tempio…; Sì, io vengo nel tempio per adorare l’Eterno. “Bisogna che la frase sia terminata per sapere di che cosa si tratta. La frase esiste solo se compiuta, e il suo senso le viene alla fine. Bisogna essere arrivati al termine, cioè dalla parte di questo famoso Eterno. Qui siamo nell’ordine dei significanti, e spero di avervi fatto sentire che cosa è la continuità del significante. Una unità significante presuppone una certa chiusura del cerchio in cui sono situati i diversi elementi”.[7] Quindi una unità significante non è un elemento ma va pensata come una unità di due o più elementi all’interno di una catena. Inoltre, affinché non si produca un puro accumulo di significati riferiti alle unità significanti, è necessaria l’idea di continuità della catena significante. È necessario che in un dato flusso discorsivo si stagli qualcosa che illumini e metta in fila i significati emersi e non li lasci slittare uno sull’altro indefinitamente.[8] Come toccare con mano questa necessità?
Prendiamo un esempio in cui le singole parole hanno un significato e persino le singole frasi hanno una coerenza semantica:
“Sono andato su un trattore. È una macchina rossa. Anche zia Anna ha una sciarpa rossa. Sciarpa è una parola che contiene una p. La p è la quattordicesima lettera dell’alfabeto italiano. Due settimane hanno quattordici giorni. Tutti i giorni do da mangiare ai miei pesciolini. Sciorino preghiere perché non muoiano. Non è una parola di tre lettere, muoiano di sette”.
Se isolo ogni frase non ho la percezione della deriva del discorso, che appare però delirante una volta che considero retroattivamente ogni unità significante nella concatenazione. Ecco allora che per la comprensione di un discorso o di un testo, devo porre come unità significante non la frase ma più frasi, devo arrivare in fondo al periodo per capire il senso delle diverse frasi. Ampliando ancora di più lo sguardo, devo arrivare a leggere tutta la scena (o i diversi capitoli) per capire le parole, le frasi, i periodi. Addirittura, per capire le diverse scene devo arrivare in fondo alla storia. Per capire la storia devo conoscere il contesto e i riferimenti extratestuali (problemi posti recentemente dalla linguistica testuale e intertestuale). Le catene significanti diventano allora degli operatori in grado di farci leggere a diversi livelli il significato di un discorso (come in un diagramma di Venn a cerchi concentrici). Lacan anticipa in tal modo una questione paradossale che la linguistica e la semiotica si troveranno a dover affrontare qualche anno dopo. Si prenda, ad esempio la seguente formula f:(S’-S”…)S dove il rinvio metonimico dei significanti nella parentesi si articola con il Significante fuori parentesi che indica il contesto. Se i singoli significanti in parentesi sono parole, queste prenderanno un significato in funzione del contesto, della S fuori parentesi; qui il contesto può essere la frase. Ma potremmo prendere le frasi come singoli significanti che si rinviano metonimicamente e dovremmo interpretarle in funzione di una S fuori parentesi, in tal caso il contesto sarebbe un periodo o un capitolo; i capitoli potrebbero essere i significanti e il S contesto sarebbe il libro; il libro potrebbe essere insieme ad altri libri il sistema significante da interpretare in funzione di un S contesto fuori parentesi, ad esempio “discorso filosofico” (se i libri sono di filosofia) e così via. In altre parole il sistema della lingua non potrà rendere conto dell’annodamento S/s se non portando in campo riferimenti sempre più ampi che conducono all’intero universo simbolico del soggetto in gioco, per il quale quello specifico testo o discorso assume senso attraverso annodamenti specifici. La proposta di Lacan sarebbe in continuità con l’approccio semiotico e con l’ermeneutica se non si spingesse oltre a voler scoprire l’al di là dell’indifferenza e dell’equivalenza dei significanti, a scoprire i punti in cui S e s si toccano, si annodano, obbedendo non a una legge linguistica (di presunte corrispondenze interne alla struttura linguistica), ma a determinanti storico-culturali e soggettive. Il rapporto tra S/s cambia col passare del tempo (variabilità diacronica), cambia a seconda dei contesti culturali (variabilità diatopica), a seconda dei contesti relazionali (variabilità diafasica).[9]
Per tornare all’esempio di apertura del presente testo, affinché due parlanti si intendano, almeno un po’, è necessario prima di tutto che condividano una lingua; ma non basta. È necessario che Significanti e significati non scorrano indifferenti gli uni agli altri; la loro relazione non è e non può essere data e assoluta, eppure non è del tutto libera e fluttuante. Nonostante lo scivolamento reciproco tra catena dei significanti e flusso dei significati, ci sono legami, annodamenti, che si producono arbitrariamente. Ma come si produce questa coerenza? A partire dalle regole della grammatica, della sintassi? Negli isomorfismi fonetici tra S/s (onomatopee), o nella identità stilistica (data da identità semantiche come le isotopie o da identità retoriche come i tropi)? O addirittura sarebbe riconducibile a una grammatica profonda comune a tutti gli esseri parlanti?[10] In tali casi l’analisi strutturale della lingua sarebbe allora sufficiente a individuare in un discorso (o testo) i punti di annodamento tra S/s. Per Lacan non è sufficiente, dobbiamo portare in campo una variabile dinamica per capire meglio come si producono caso per caso tali annodamenti; dobbiamo portare la singolarità della storia, storia del soggetto da una parte[11] e storia della cultura dall’altra.[12] Non gli basta dire che il Significante è determinante rispetto al significato, che il Significante non è isolabile, che il Significante funziona nell’après-coup; deve ora dare evidenza al fatto che non tutti i Significanti sono uguali. Sono da reperire ora quei “Significanti speciali” che in un dato soggetto (e in una data cultura) fanno argine alla fuga del senso, alla semiosi illimitata, al delirio ermeneutico. Come campo di prova prende il dialogo iniziale di una tragedia di Racine, Atalia. Analizza passo passo il dialogo tra Joad, il sommo sacerdote e Abner, un generale della regina Atalia. Propongo qui prima l’intero dialogo, affinché il lettore si provi, con le sue intuizioni e risorse a cogliere il gioco S/s che Lacan ci svelerà.
La storia di Atalia è raccontata nell’Antico testamento, nel Libro dei Re. Moglie di Ioram e madre di Acazia re di Giuda, Atalia sterminò tutta la sua famiglia per poter regnare, quando il re Acacia, suo figlio, morì. Al genocidio scampò solo il nipote Ioas che le venne nascosto dal gran sacerdote Joad. Ma quando l’identità di Ioas, ormai cresciuto, venne rivelata dal gran sacerdote, la regina fu uccisa e il nipote diventò re. La tragedia di Racine inizia proprio nel momento in cui sta per essere rivelata l’esistenza del legittimo erede, il ragazzo Ioas. Proviamo, leggendo l’intero dialogo, a non perderci nelle chiacchiere e nella proliferazione di sensi e a individuare l’essenziale, ciò che nel dialogo tra il generale Abner e il sommo sacerdote Joad ha un effetto decisivo.
ATTO I, Scena I
ABNER: Si, io vengo nel tempio ad adorare l’Eterno, / come con rito antico qui si soleva fare, / con voi celebrerò la gloriosa giornata / in cui sul monte Sinai la legge ci fu data. / Troppo mutati i tempi! Appena di tal giorno / solenni squilli sacri annunciavano il ritorno, / del tempio, ovunque adorno di festoni magnifici, / la turba sacra in folla sciamava per i portici; / e davanti all’altare con ordine introdotta / offrendo dei suoi campi a mani alzate i frutti, / al Dio dell’universo consacrava primizie. / Non bastavano i preti a tanti sacrifizi. / L’audacia di una donna ha bloccato il fervore, / mutando quei bei giorni in giorni di squallore. / Di zelanti devoti una sparuta schiera / dei primi tempi osa tramandarci un’idea. / Il resto fatalmente va Dio dimenticando / o perfino, di Baal ogni altare affollando, / ai suoi empi misteri vuole farsi iniziare / e il nome sacro ai padri è pronto a bestemmiare. / Io tremo che Atalia (e qui ve lo confesso), / facendo dall’altare escludere voi stesso / prepari contro voi la vendetta funesta, / con finte devozioni svuotando ciò che resta.
JOAD: Tale fosco presagio che cosa mai vi ispira?
ABNER: Voi siete santo e giusto, attizzerete l’ira. / Lei odia da gran tempo quella fermezza rara / che in voi, Joad, rinnova il fulgore della tiara. / Da tempo il vostro amore per questa religione / si giudica ribelle, appare sedizione. / La regina, che d’ogni chiara virtù è gelosa, /odia fra tutti Giosabet, la vostra onesta sposa. / Se del gran prete Aronne Joad ha preso il posto, / Giosabet è sorella del re che è stato nostro. / Mathan del resto, Mathan, il sacrilego prete / più malvagio di Atalia la stringe nella rete; / Mathan, dei nostri altari infame disertore, / e di ogni virtù aspro persecutore, / da poco, cinto in fronte con mitria straniera, / di Baal ora è officiante, da levita che era. / Questo tempio lo irrita: poiché ha tanto peccato, / vorrebbe incenerire il Dio che ha abbandonato. / Per perdervi, ogni piano ordisce, vi raggira, / se talvolta vi biasima, altra volta vi ammira; / un sorriso mielato per voi suole ostentare / e così mascherando l’umore arrabiliare / ora a questa regina vi dipinge esecrabile, / altra volta sapendola tanto d’oro insaziabile, / le prospetta che in luogo solo a voi rivelato / nascondete tesori che Davide ha ammucchiato. / Insomma, da due giorni, la regina sfrontata / in un cupo dolore appare sprofondata. / Io l’osservavo, ieri, e vedevo il suo sguardo / colpire il luogo santo con la furia di un dardo. / Come se, nel segreto dell’immane edificio, / Dio celasse un sicario per il suo sacrificio. / Più ci penso, credetemi, meno so dubitare / che su voi la sua collera non stia per scoppiare, / e che di Gezabel la figlia sanguinaria / possa sfidare Dio nel suo stesso santuario.
JOAD: Colui che sa mettere un freno al furore dei flutti, / sa anche arrestare i complotti dei malvagi. / Sottomesso con rispetto ai suoi comandamenti / Io temo Dio, caro Abner, e non ho altro timore. / Ringrazio tuttavia la devota premura che per ogni mio rischio vi ispira tanta cura. / So che ogni ingiustizia per voi è una ferita, / che sempre conservate un cuore israelita. / Ne sia lodato il cielo! Ma un’angoscia furtiva / è tutto ciò che offrite? Una virtù passiva? / Una fede inattiva può essere sincera? / Da più di otto anni un’indegna straniera / dello scettro di Davide ogni potere strappa / e del sangue dei re impunita si macchia. / Dei figli di suo figlio flagello disumano / perfino contro Dio può alzare l’empia mano. / E voi, una colonna del macilento Stato, / che in terra di re Giosafat siete stato allevato, / sotto suo figlio Gioram foste guida all’armata / consolidando, solo, la città spaventata, / quando Okosia la morte d’improvviso ci tolse / e all’arrivo di Gehu il campo si dissolse. / “Temo Dio, voi dite; la verità mi tocca!”. / Ed ecco vi risponde Dio con la mia bocca: / “Tanto zelo devoto che serve dimostrarmi? / Con degli omaggi sterili pensate di onorarmi? / Dai vostri sacrifizi che credete mi aspetti? Ho bisogno del sangue di giovenche e capretti? / Il sangue dei re grida, da nessuno ascoltato. / Annullate, annullate le intese col peccato. Dal cuore del mio popolo il male si allontani / e i vostri sacrifizi non sembreranno vani”.
ABNER: Che potere ho fra gente che ormai non spera più? / È inerme Beniamino, Giuda senza virtù. / Il giorno in cui si spense il seme dei sovrani / si spense anche la razza dei grandi capitani. / Ripetono: “Dio stesso ci mostra il suo sfavore. / Di quest’onore ebraico che tanto aveva a cuore / guarda senza passione la grandezza annullata. / La sua misericordia da tempo si è stancata. / Non più a nostro favore le sue tremende mani / con prodigi infiniti spaventano gli umani; / è muta l’Arca santa, non parlano gli oracoli”.
JOAD: Ma quale tempo ha visto fiorir tanti miracoli? / Quando con tanti segni Dio espresse il suo potere? / Avrai tu sempre occhi solo per non vedere, / popolo ingrato? Come! L’evento più inaudito / non ti toccherà il cuore ma soltanto l’udito? / Dev’essere a te, Abner, la messe ricordata / dei famosi prodigi che a noi si è rivelata? / Le celebri disgrazie dei tiranni d’Israele, / in tutta la sua forza Dio sempre a noi fedele; / Akchab, l’empio, distrutto; del suo sangue inondata / la terra che col crimine lui aveva usurpata; / lì Gezabel morì, su quel fatale campo / dai piedi dei cavalli travolta senza scampo, / il suo sangue bevuto dagli assetati cani, / il suo orrendo corpo ridotto in mille brani; / dei profeti bugiardi l’accozzaglia confusa / e la fiamma del cielo sull’altare discesa; / Elia che da sovrano comanda alla natura, / i cieli muta in bronzo, ne chiude l’apertura; / senza pioggia o rugiada tre anni i luoghi restano / ed i morti alla voce d’Eliseo si destano. / Riconoscete, Abner, per quei segni inauditi / che oggi come un tempo Dio ci ha favoriti. / Sa bene, quando vuole, mostrare la sua gloria, / è presente il suo popolo sempre alla sua memoria.
ABNER: Ma dove sono i fasti a Davide annunciati / e al figlio Salomone ugualmente svelati? / Ahimè! noi speravamo che la razza gloriosa / generasse di re una prole numerosa, / che su ogni nazione, sopra ogni tribù / uno se ne imponesse per valore e virtù, / mettesse fine ovunque a ogni discordia e guerra / e vedesse ai suoi piedi tutti i re della terra.
JOAD: Le promesse del cielo ci verrebbero meno?
ABNER: Quel re figlio di Davide, dove lo cercheremo? / Potrà lo stesso cielo essere di conforto / all’albero che fino alle radici è morto? / Ha spento Atalia già in culla il neonato. / I morti, in otto anni, la tomba ha liberato? / Ah, se nella sua furia si fosse un po’ smarrita, / se del sangue dei re qualche goccia sfuggita…
JOAD: Ebbene, che fareste?
ABNER: O giorno senza pari! / Con slancio innanzi al re mi andrei a inginocchiare. / Non renderebbe omaggio ogni tribù al sovrano? / Ma perché lusingarmi con un pensiero vano? / Dei re trionfatori pietoso discendente, / Okosia con i figli restava solamente. / Dalle frecce di Gehu vidi trafitto il padre, / e voi vedeste i figli uccisi dalla madre.
JOAD: Ora non mi dilungo; quando l’astro del giorno / per un terzo di giro avrà ruotato intorno, / e quando l’ora terza adunerà i credenti, / ritrovatevi al tempio con questi sentimenti. / Con chiarissimi segni Dio vi farà capire / che ferma ha la parola e che non può tradire. / Andate. Io al gran giorno mi devo preparare, / già la cima del tempio viene l’alba a imbiancare.
ABNER: Ma quale sarà il segno che io non riesco a intuire? / Vedo l’illustre Giosabet incontro a voi venire. / Esco, e vado a unirmi al popolo fidato / che la pompa solenne del giorno ha richiamato.
All’inizio non si capisce bene che cosa Abner sia andato a fare al tempio, e probabilmente neppure lui stesso lo sa: Sì, io vengo nel tempio per adorare l’Eterno…, è venuto per far partecipe il sacerdote dei suoi dubbi circa le intenzioni della regina? È venuto per saperne di più dal sacerdote? Vuole scoprire qualcosa circa il bambino nascosto? Tutta la prima parte del dialogo scorre in maniera vaga, “si conversa”. Abner rievoca i bei tempi quando il popolo affollava il tempio e gli adoratori zelanti erano in gran numero. Non si capisce bene dove vada a parare. Presto Joad fa in modo che Abner lo scopra e noi con lui. Ma dove possiamo reperire questo cambio di registro? Solo alla fine, retroattivamente possiamo sapere di cosa si tratta effettivamente. Alcuni significanti ci mettono sulla buona strada. “La mira appare alla fine del primo discorso, e cioè – Tremo che Atalia, […]. Vediamo sorgere qui una parola di grande importanza – tremo. […] C’è qui qualcosa che mostra la punta significativa del discorso”.[13] Abner mostra di temere la potenza di Atalia che si è chiaramente manifestata (a differenza della potenza di Dio che sembra sopita). Joad qui non si espone, non lascia trapelare nulla (del bambino nascosto e delle sue intenzioni), ma al contrario interroga Abner: Da dove vi viene oggi, questo nero presentimento? Abner risponde cercando ancora di sondare, di collaudare il filo teso tra la regina e Joad. Se restiamo sul registro delle significazioni, la nostra lettura fin ora non ha prodotto granché. Joad non si scuce e Abner sonda. Alla fine del primo scambio di battute Abner non ne sa né più né meno dell’inizio, e noi con lui. “questa prima scena, quanto alla sua pienezza significativa, potrebbe riassumersi in questo:
Vengo per il Corpus Domini. Bene, dice l’altro, entra in processione, e sta’ zitto in fila.[14]
Non è così, ma ad una sola condizione – che vi accorgiate del ruolo del significante. Se ve ne accorgete, vedrete che soggiacenti al discorso dei due personaggi vi è un certo numero di parole-chiave, che si ricoprono in parte. Ci sono la parola tremare, la parola timore, la parola sterminio. Tremare e timore sono usate prima da Abner, che ci conduce al punto che vi ho indicato, cioè al momento in cui Joad prende veramente la parola.
Colui che sa mettere un freno al furore dei flutti,
Sa anche arrestare i complotti dei malvagi.
Sottomesso con rispetto ai suoi comandamenti
Io temo Dio, caro Abner, e non ho altro timore”.[15]
Io temo Dio e non Atalia, ecco la risposta del sommo sacerdote ai dubbi del generale. Ecco come il significante timore assume il valore di “isotopia”[16] che rimbalza da Abner a Joad, orientando retroattivamente anche gli altri significati. Non c’è nulla da temere se non Dio. Il ruolo di questo significante è decisivo. Tutte le altre paure, tutte le incertezze sono assorbite da questo significante “maggiore e primordiale. È il significante che domina la cosa, poiché per quanto riguarda le significazioni, esse sono mutate del tutto. Quel famoso timor di Dio compie il gioco di prestigio di trasformare da un momento all’altro ogni timore in un perfetto coraggio. […] Ciò che è accaduto alla fine della scena è precisamente questo – il timore di Dio, Joad lo ha passato all’altro, e come si deve, dalla parte giusta e in modo indolore. E subito Abner se ne va solido, con la parola che fa eco a quel Dio fedele in tutte le sue minacce […]. La virtù del significante, l’efficacia della parola timore, è stata quella di trasformare lo zelo dell’inizio, con tutto ciò che di ambiguo e di dubbio esso comporta, sempre pronto a ogni capovolgimento, nella fedeltà finale. Questa trasmutazione è dell’ordine del significante come tale. E non può bastare a giustificarla nessuna accumulazione, nessuna sovrapposizione, nessuna somma di significazioni. È nella trasmutazione della situazione grazie all’invenzione del significante, che sta tutto il progresso di questa scena […]. Che si tratti di un testo sacro, di un romanzo, di un dramma, di un monologo o di qualsiasi conversazione, permettetemi di rappresentare la funzione del significante con un artificio spazializzante […]. Il punto intorno a cui deve esercitarsi ogni analisi concreta del discorso, lo chiamerò punto di capitone. […] Se analizzassimo questa scena come una partitura musicale, vedremmo che è qui il punto in cui vengono ad annodarsi il significato e il significante, tra la massa sempre fluttuante delle significazioni realmente circolanti tra i due personaggi, e il testo. Ed è a questo testo mirabile, e non alla significazione, che Atalia è debitrice di non essere un pezzo da boulevard. Il punto di capitone è la parola timore, con tutte queste connotazioni trans-significative.[17] Intorno a questo significante, tutto si irradia e si organizza […]. È il punto di convergenza che permette di situare retroattivamente e prospetticamente tutto ciò che accade in questo discorso”.[18]
Quindi è il timore di Dio qui a farci capire retroattivamente cosa si è giocato nella partita e come tale significante introdotto da Joad ha chiarito le regole del gioco e ha prodotto una chiara presa di posizione di Abner. E tale significante è in grado di farci intuire cosa accadrà “prospetticamente” a partire da qui. Qui è chiarita la distanza di Lacan dai metodi della linguistica testuale, non può bastare nessuna analisi dell’accumulazione, della sovrapposizione, nessuna somma di significazioni per dar conto del perno attorno a cui ruota la scena. L’analisi lessicale, semantica, retorica (isotopie, topic, stile) non sono sufficienti. Tocca portare in campo una analisi trans-significativa in grado di rilevare significanti essenziali propri di una cultura o di un’epoca, significanti che orientano la costituzione stessa del soggetto.[19] La tradizione occidentale di fatto si è fondata sul timore di Dio, quindi per noi è un significante primordiale “che si trova dappertutto”. Lacan estende la funzione e l’importanza del punto-di-capitone (PdC) agli aspetti fondamentali dell’esperienza umana. Se Freud aveva assegnato al complesso di Edipo un valore privilegiato, è perché “la nozione di Padre, assai vicina a quella di timore di Dio, gli fornisce l’elemento più tangibile nell’esperienza di ciò che ho chiamato punto di capitone tra il significante e il significato”.[20] Non tutti i significanti hanno le stesse probabilità di essere punti di capitone, ce ne sono alcuni privilegiati, anzi possiamo dire che ce ne sono alcuni in particolare che saranno reperibili in ogni struttura di discorso, alcuni che rimandano a un significante padrone: il Timore di Dio, il Nome del Padre. Ecco perché nel discorso dello psicotico – dove l’Edipo non ha messo in funzione il Nome del Padre, il PdC fondamentale – il significante e il significato si presentano in forma divisa, slittano continuamente. Possiamo pensare alla psicosi in termini di mancanza o di labilità di punti di annodamento: “Non ne so il conto, ma non è impossibile che si arrivi a determinare il numero minimo di punti di attacco fondamentali tra il significante e il significato, necessari perché un essere umano sia detto normale, e che, quando non sono stabiliti o cedono, fanno lo psicotico”.[21] Quando questi punti di attacco cedono l’intera struttura è presa in una fuga del senso che a volte chiamiamo delirio o discorso folle. L’incrinatura del significante Nome-del-Padre, determina il venir meno delle significazioni e della posizione stessa del soggetto. Shakespeare ci ha dato innumerevoli esempi degli effetti di tale incrinatura. Le parole di re Lear, quando si sente tradito e abbandonato dall’amore e dal rispetto delle figlie, sono quantomai evocative: “Tu mi sloghi dal perno della struttura del mio essere, dal centro cui era fissata la mia natura”,[22] dopodichè sarà l’abisso della follia. Oppure si veda l’espressione di Amleto: “Il mondo è fuori squadra: maledetta sorte, esser nato per rimetterlo in sesto!”. Dove è proprio il termine Joint (giuntura, punto di congiunzione) a far risuonare la tragicità del suo impossibile destino a ristabilire il Nome-del-Padre. Dopodiché ogni cosa perderà di senso, tutto si voterà a una fuga tormentata nel dubbio.[23]
Il PdC oltre il Seminario III
Successivamente, nella teoria lacaniana, il PdC ha avuto diverse declinazioni. La funzione di capitonaggio è stata assegnata ora a un significante particolare, ora a un operatore logico, a un particolare oggetto o addirittura a un’immagine-significante.[24] Per quanto riguarda la possibilità di considerare una immagine come significante speciale e addirittura in funzione di PdC, recentemente J. A. Miller ha parlato di immagine regina.
“Ho introdotto l’espressione immagine regina come omologa, nell’immaginario, all’espressione significante padrone nel simbolico. […] Il significante padrone, per l’esattezza, designa il significante privilegiato da cui il soggetto si fa rappresentare nel simbolico e che lo introduce nella catena significante. […] è vero al tempo stesso che ogni significante può stare al posto di un altro: a rigore, non c’è significante privilegiato. La definizione di significante è: elemento x suscettibile di metafora e di metonimia. A dire il vero non dovremmo parlare di significante padrone, perché tra i significanti c’è uguaglianza. Il termine significante si qualifica per il fatto che ogni significante può sostituirne un altro. L’espressione stessa significante padrone ha un carattere paradossale”.[25] Tuttavia possiamo parlare di significante padrone per motivi logici, per rendere conto di un “operatore logico” in grado di attrarre, raggruppare, mettere in sequenza, ordinare, gerarchizzare concetti, significati, immagini ed elementi linguistici che altrimenti rimarrebbero sparsi. In realtà dal momento che entrano a far parte di una catena significante, tutti gli elementi possono essere trattati come elementi significanti, anche “le immagini possono diventare significanti: in questo caso parleremo di significanti immaginari”.[26] In quanto tali possono svolgere in un discorso la funzione di punto di capitone. Il fantasma è un ottimo esempio di significante immaginario. Il fantasma può essere considerato come una frase, sia pure si offra attraverso il registro immaginario: è una frase-immagine. Miller ha ribadito come l’immagine non sia pensabile senza il supporto di un enunciato, di una frase (inconscia). Il fantasma conserva sempre le tracce degli elementi significanti. Non dobbiamo lasciarci sedurre dalla prevalenza di una immagine (o da un significato), ma dobbiamo cercare in questa stessa prevalenza il “segno della catena significante che essa sottrae. Dunque, la prevalenza di un’immagine non è riducibile a una traccia pura e semplice, si riferisce per così dire a tutto uno scenario e anche alle varianti di uno scenario, di cui costituisce una sorta di riduzione”.[27]
Date queste premesse, il fantasma stesso può essere considerato il punto di capitone del soggetto, il significante-immagine al quale si perviene alla fine dell’analisi. Con l’interpretazione dei sogni, le libere associazioni, l’attraversamento di molteplici significazioni e identificazioni, si arriva a una sorta di “significato-immagine-padrone” che è appunto il fantasma. Anche le cristallizzazioni identificatorie, le insegne dell’Ideale possono avere funzione di annodamento. In effetti, l’Ideale dell’io è un PdC che ferma e orienta la catena delle identificazioni e delle maschere.[28] A ben vedere, suggerisce Miller, possiamo addirittura nominare tali immagini speciali. Nella valanga di immagini che ci sommerge (immagini del sogno, immagini percettive, immagini dell’arte, immagini mentali fantasmatiche), ce ne sono alcune che insistono, persistono e si impongono come immagini regine: “Ce ne sono soltanto tre: il corpo proprio, il corpo dell’Altro e il fallo”.[29] Tali “immagini regine sono il luogo in cui l’immaginario si annoda al godimento”.[30]
Non solo il punto di capitone deve render conto dell’annodamento tra significante e significato, tra Immaginario e Simbolico, ma anche di questi con il godimento, con brani di Reale. Ecco allora che nell’ultima fase del suo insegnamento il punto di capitone sarà per Lacan uno dei modi per dire l’annodamento dei tre registri. Nel Seminario XX Lacan parla del punto di capitone come sembiante. J. A. Miller fa notare che il “sembiante designa un significante che non è tra altri. È una selezione, operata nell’ordine del simbolico, quella che costituisce il privilegio di un significante: che questo significante sia primo o ultimo esso è in ogni caso autosignificante. […] è quello che può apparire come significante fondatore o come risposta ultima, e per questo stesso motivo può apparire come la cosa stessa. È in questo che il sembiante è il punto di capitone. Creando la categoria del sembiante Lacan ha ripreso ciò che aveva presentato come il punto di capitone e ha dato su di esso un’altra prospettiva”.[31] Anche il grafo del desiderio è un modo di mostrare il punto di capitone tra simbolico (significante) e immaginario (significato). Grazie ai punti di capitone, alla impuntitura di questo sembiante, sembra che S e I possano andare insieme e addirittura perforare il Reale stesso. Ma Lacan si accorgerà nel Seminario XX che il Reale non è riconducibile al sembiante. È Miller a farcelo constatare: “Il sembiante per eccellenza è il simbolico che si fa prendere per reale, a causa dell’effetto dell’impuntitura che esso realizza con l’immaginario. A causa dell’ordine che esso vi produce, della ripresa che esso ne compie, il simbolico si fa prendere per il reale. Per questo il Padre appare come ciò che incarna per eccellenza il sembiante, questo padre che esiste solo in quanto Nome. […] Se il fallo è anche lui un sembiante, lo è per il fatto che attesta il Padre, è in qualche modo la pezza d’appoggio del sembiante del Padre. […] C’è ancora un terzo sembiante che completa la serie, un sembiante più fragile, più recente degli altri due. Questo terzo sembiante, questo terzo punto di capitone, è l’oggetto a, che non è niente di più che un Nome, un Nome inventato da Lacan per designare ciò che del godimento resta fuori della presa del grafo del desiderio, fuori della connessione del significante e del significato. In questa prospettiva, questi Nomi – padre, fallo e oggetto a – appaiono come altrettanti nomi del godimento”.[32] Appaiono anche come altrettanti punti di capitone.[33] I PdC sono nomi del godimento, strumenti artificiali necessari a sostenere il soggetto, a tenere insieme i tre registri Reale-Simbolico-Immaginario. In La conversazione di Arcachon, Miller ritorna sulla questione del punto di capitone (PdC). A partire dalla clinica borromea dell’ultimo Lacan è possibile dare una ulteriore prospettiva riguardo al punto di capitone e al problema dell’annodamento nella psicosi. Nella clinica borromea, appunto, è concepibile una psicosi che si regga senza il Nome del Padre, a fare le sue veci sarebbe il sintomo, in quanto ci sarebbe una equivalenza tra Nome del Padre e sintomo: ∑=NdP. “Questa formula è un principio cardine della clinica borromea. Che il nodo sia a tre o a quattro anelli, si tratta sempre di modi di mettere in opera l’equivalenza tra sintomo e Nome-del-Padre. Diciamo che un sintomo può assolvere la funzione di Nome-del-Padre. […] Il Nome-del-Padre stesso non è niente più che un sintomo. Cosicché si ottiene questo schema molto semplice, secondo il quale il punto di capitone, PdC, ha due forme principali, il Nome-del-Padre e il sintomo”.[34]
NdP
PdC <
∑
In ogni caso, sia il NdP sia il ∑ possono funzionare come punto di capitone che annoda e fa sì che la struttura regga senza scivolare nella psicosi. Il sintomo può essere una soluzione, allora, che viene a turare il posto vuoto, la mancanza del NdP, si parla allora di una soluzione, un’uscita attraverso il sintomo. Ma come ha notato Eric Laurent: “si potrebbe concepire tutta un’articolazione clinica da fare, seguendo le differenti cliniche di Lacan: si tratterebbe di situare questo tipo di uscita attraverso il sintomo e di distinguerla dall’identificazione con il sintomo come punto di capitone. In fondo ci sono dei buoni e dei cattivi punti di capitone. Non ci sono solo dei punti di capitone che sono dalla parte buona, ci sono delle uscite attraverso una sorta di capitonaggio fatto verso pessime direzioni”.[35]
NOTE
[1] Lacan Jacques, Seminario III. Le psicosi, Einaudi, Torino, 1985, p. 319.
[2] Ne danno testimonianza esemplare James Joyce e Antonin Artaud che hanno cercato la reinvenzione della lingua attraverso ricombinazioni fonologiche e morfosintattiche (glossolalie, omofonie, neologie).
[3] Nello psicotico spesso il delirio rappresenta il tentativo di inventare una connessione S/s, come sottolinea Lacan: “significante e significato si stabilizzano nella metafora delirante” (Scritti, Einaudi, Torino, 2002, p. 573).
[4] Per sua natura il sistema della lingua consiste in una rappresentazione o segno che si definisce in base a un altro segno, in una catena infinita di segni che rimandano a segni. Ma cosa arresta quindi l’interpretazione e ci permette di cogliere il riferimento a una realtà? La soluzione della semiologia è fondamentalmente la seguente: “Dopo aver ricevuto una sequenza di segni il nostro modo di agire nel mondo ne viene permanentemente o transitoriamente mutato. Questa nuova attitudine è l’interpretante finale. A questo punto la semiosi illimitata si arresta, lo scambio dei segni ha prodotto modificazioni dell’esperienza, l’anello mancante tra semiosi e realtà fisica è stato finalmente identificato” (Umberto Eco, Lector in Fabula, Bompiani, Milano 1994, p. 45; vedi anche, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975, p. 104 s.). In altre parole, l’azione, l’abitudine, l’uso della lingua, stabilisce il legame S/s, la Pragmatica è la risposta al problema dell’annodamento S/s.
[5] Per Saussure dobbiamo concepire la lingua “come una serie di suddivisioni contigue proiettate, nel medesimo tempo, sia sul piano indefinito delle idee confuse sia su quello non meno indeterminato dei suoni” (p. 136). Ma è necessario ribadire che il “legame dell’idea e del suono è radicalmente arbitrario” (Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari 1987, p. 138).
[6] Saussure, op. cit., p. 138.
[7] Lacan, Sem. III, p. 312.
[8] In fondo anche la tecnica dell’attenzione ugualmente fluttuante di Freud è un modo per non lasciarsi catturare dalla massa amorfa dei significati ma lasciare che un significante particolare balzi fuori dai flutti e crei un ordine.
[9] È stato il linguista Eugenio Coseriu a parlare in questi termini delle dimensioni della variabilità linguistica, in particolare ha definito le varietà diafasiche come le diverse modalità d’uso di una lingua che sono influenzate dall’argomento e dal contesto comunicativo o dominio (classi omogenee di situazioni comunicative che si caratterizzano per una distribuzione prestabilita dei ruoli dei parlanti; sono infatti domini: la famiglia, il lavoro, l’istruzione, la chiesa, le relazioni amichevoli ecc.); ha indicato con variabilità diatopica la differenziazione legata allo spazio; infine con variabilità diastratica la differenziazione in rapporto alla classe sociale, all’età, al sesso ecc.. Quindi il rapporto tra S/s è di volta in volta garantito da queste diverse dimensioni: temporali, spaziali, situazionali (Lezioni di linguistica generale, Boringhieri, Tonino, 1973).
[10] Vedi la teoria della “Grammatica generativa” di Noam Chomsky, secondo cui la lingua ha una struttura comune, universale che rispecchia il modo di funzionare innato di facoltà mentali, in particolare, Lectures on Government and Binding: The Pisa Lectures, Holland, Foris Publications, 1981 (trad. it.: Lezioni sulla reggenza e sul legamento – Lezioni pisane, Caissa Italia Editore, Roma).
[11] E qui troviamo il compito essenziale della psicoanalisi.
[12] Qui è il compito essenziale della critica culturale (artistica, letteraria, filosofica, storica, sociologica). Un esempio evidente potrebbe essere il lavoro critico di Harold Bloom, Il canone occidentale (Bompiani, Milano 1996), dove l’autore cerca di individuare attraverso la letteratura proprio la cifra stilistica e tematica di un’epoca e di un’intera cultura.
[13] Sem. III, p. 313.
[14] Cioè, Abner è venuto per vedere il ragazzo nascosto, erede al trono, ma Joad prende tempo e vuole appurare se è effettivamente dalla sua parte (se si mette in processione).
[15] Sem. III, p. 315.
[16] Nella linguistica testuale si definisce connettore un elemento formale che garantisce coesione al testo. Ce ne sono vari tipi ma il principale è l’isotopia. L’isotopia è una unità di coerenza semantica, una unità linguistica e/o tematica che ricorre con una certa frequenza in tutto il testo o in alcune specifiche sequenze, creando delle ridondanze, ad esempio nel dialogo analizzato ricorrono i significanti: paura, tremare, timore, sterminio, tali ricorrenze possono essere ricondotte a un unico campo semantico. Il concetto di isotopia trova una sua elaborazione e definizione in Greimas: “per isotopia intendiamo un insieme di categorie semantiche che rende possibile la lettura uniforme del racconto, quale essa risulta dalle letture parziali degli enunciati e dalla rimozione delle loro ambiguità, guidata questa dalla ricerca della lettura unica” (Algirdas Greimas, Del senso, R.C.S., Milano, 1996). Tale definizione è stata successivamente ripresa da vari autori come griglia di lettura e organizzazione delle tracce semantiche del testo (Umberto Eco, Lector in fabula, Op. cit. 1995, Giovanni Bottiroli, Retorica. L’intelligenza figurale nell’arte e nella filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 1993). Le isotopie o unità ridondanti sono state suddivise in:
– isotopie di contenuto: elementi ricorrenti (parole, verbi, temi), a contenuto ridondante definibile anche in termini di dimensioni o aree esistenziali entro cui si muove il personaggio.
– isotopie figurali (ricorrenza di certe figure): si riferiscono a quelle figure retoriche come prosopopee, metafore, metonimie, ossimori, rovesciamenti, antitesi, che contrassegnano la ridondanza testuale. Ad esempio i romanzi di Kafka presentano un alto tasso di metonimie mentre Proust è prodigo di metafore. Tra le diverse figure, un computo a parte è stato eseguito per quelle definite “metafore situazionali”, ossia classi di oggetti, esseri animati, immagini, che richiamano ripetutamente una situazione, un ambiente, un contesto.
– isotopie grammaticali: si riferiscono alla frequenza dell’uso di certe forme grammaticali.
La ridondanza prodotta dall’isotopia ha la duplice funzione di contrastare il rumore sul piano sintattico e fornire continuità al testo sul piano semantico.
Ma l’isotopia non è ancora il “punto di capitone”, poiché all’interno di un testo ci sono più isotopie e non è possibile, in linea di principio, stabilire l’isotopia fondamentale alla luce della quale leggere e ordinare tutte le altre. Ad esempio nel dialogo di Atalia preso in considerazione, ci sono varie isotopie oltre a quella di timore. Inoltre quella “fondamentale” potrebbe essere non la più frequente.
[17] Qui per connotazioni trans-significative, Lacan non si riferisce solo alle diverse sfumature di significato che nel dialogo assume tale termine, ma piuttosto ai rimandi inter- ed extra-testuali di tale significante. Al di là dei significati che assume nel presente dialogo e nell’intero testo di Atalia, il significante timore è essenziale nella religione giudaico-cristiana ed impregna di sé la condotta, la pedagogia, l’identità, i modi della percezione, del pensiero, del linguaggio dell’intera civiltà occidentale. Ecco allora che il rimando “automatico” del significante timore è ad altri testi (intertestuale) e ad altri prodotti (extratestuali) della cultura giudaico-cristiana (condotte quotidiane, immaginario sociale, saperi e arti). Se un significante come Il timore di Dio può annodare gli altri significanti al flusso di significati che altrimenti rimarrebbero fluttuanti e aperti a moltissimi sensi, è perché tale significante ha un valore particolare nella cultura giudaico-cristiana, tale da costituire un perno attorno a cui girano discorsi morali, filosofici, letterari, quotidiani…, tale da costituire un attrattore che orienta il senso della vita di una cultura, tale da costituire la squadra per misurare le distanze tra bene e male, umano e non-umano, adulto e immaturo, virtù e dannazione, tale da costituire una bussola per orientare e indicare il senso nell’arbitrarietà e dispersione delle cose del mondo. Se Il timore di Dio ha tale potenza è perché nella storia e nella soggettività di Abner, tale significante è strutturante: se Abner fosse psicotico o se fosse ateo o se venisse da una cultura in cui il nome di Dio è estraneo, allora quel S non avrebbe avuto presa e le parole di Joad sarebbero cadute nel vuoto.
[18] Sem. III, pp. 317-318.
[19] Non tutti i significanti sono costitutivi. La parola strutturante, piena, che ha valore è quella che si sostiene sull’Altro simbolico: “non c’è vero soggetto che tenga, se non quello che parla in nome della parola. Non avrete dimenticato il piano da cui Joad parla – Ma, per bocca mia, Dio vi risponde. Non c’è soggetto se non nel riferimento a questo Altro. Questo è simbolico ed esiste in ogni parola che abbia valore” (Jacques Lacan, Il Seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio, Einaudi, Torino, 2004, p. 9). Questo Altro è un Altro mitico poiché non è assoluto o inerente alla struttura linguistica, ogni cultura lo deve produrre: Dio padre, nella cultura giudaico-cristiana. “Il padre è, nell’Altro, il significante che rappresenta l’esistenza del luogo della catena significante come legge. Egli si pone, se posso dire così, al di sopra di essa” (Ivi, p. 198). È il significante grazie al quale tutto si mette in ordine. Questo significante speciale è in una posizione metaforica in quanto viene sanzionato dalla comunità e trasmesso all’interno del sistema familiare (dalla madre) come ciò che garantisce il luogo della legge; ma proprio perché è la comunità e la madre a sanzionarlo, può prendere varie configurazioni a seconda della cultura: può essere il Dio padre, il Cielo, l’ Albero, l’Animale, il Totem, o addirittura una Fontana.
[20] Sem. III, p. 318.
[21] Ivi, p. 319.
[22] Wrenched my frame of nature/ From the fixed place, drew from my heart all love. (Re Lear, Atto I, sc. 4, vv. 267-70).
[23] The time is out of joint (Amleto, Atto I, sc. 5, v. 188).
[24] Ovviamente la importantissima elaborazione del Grafo del desiderio, a partire dal Seminario V, trova il suo motivo proprio nel concetto di PdC: il grafo è una rappresentazione di come S/s si articolano e si annodano nei diversi piani dell’esperienza del soggetto (Scritti, p. 807).
[25] Jacques-Alain Miller, Delucidazioni su Lacan, Antigone Edizioni, Torino 2008, pp. 392-393.
[26] Ivi, p. 393.
[27] Jacques-Alain Miller, “La natura dei sembianti”, in La Psicoanalisi n. 18, 1995, Roma, p. 154.
[28] Lacan, Sem. V, pp. 343, 351.
[29] Miller, Delucidazioni su Lacan, op cit., p. 395.
[30] Ivi, p. 399.
[31] Miller, “La natura dei sembianti”, in La Psicoanalisi n. 16, 1994, Roma, p. 160.
[32] Ivi, p. 162.
[33] Il sembiante può quindi presentarsi sotto diverse forme o immagini. Abbiamo visto come la prevalenza di un’immagine non è riducibile a una traccia pura e semplice, si riferisce a tutto uno scenario. “È questo che si tratta di ricordare quando dobbiamo trattare del fallo […] è già un modo di indicarci in quale senso il fallo è sembiante – qui è sembiante in quanto questa immagine suprema sottrae tutta un’articolazione significante” (Miller, “La natura dei sembianti”, in La Psicoanalisi n. 18, 1995, Roma, p. 154).
[34] Jacques-Alain Miller, “Dal Nome-del-Padre al Punto-di-Capitone”, in La conversazione di Arcachon, Astrolabio, Roma 1997, p. 127.
[35] Eric Laurent, “Un’uscita via il sintomo”, in Jacques-Alain Miller, Il nuovo, Astrolabio, Roma, 2005, p. 109.